Se non sai dove stai andando

di Raffaella Silvestri

 

Dove il Golfo di Napoli

Dove il Golfo di Napoli si sente la brezza che spira con 35 gradi all’ombra, nel profumo dei limoni, quando fa tanto caldo che i gelati si sciolgono in mano, e che bisogna andare a fare il bagno nelle pozze per rinfrescarsi un po’; dove il Golfo di Napoli è a mezz’ora di bicicletta, lì, a dieci chilometri dal mare, c’è un paesello, si chiama Bagnoli.

Non si pensi che sia un paesello speciale, né pittoresco né artistico, né bello e neanche carino; è un paesello che ce ne sono a centinaia, basta uscire al casello di Caserta e poi proseguire sulla statale. Ai tempi di cui trattiamo, certo, non c’erano autostrade né statali. C’erano macchine, ma erano poche. Per dire una data, diremo millenovecentotrentacinque; ma è sbagliata, sicuramente, allora diciamo solo prima della guerra: a Bagnoli prima della guerra. Un ragazzino, aveva dieci anni, Mario, portava un chilo di zucchero alla maestra all’inizio dell’anno, o in ricorrenze particolari, come si usava allora, correva sempre e parlava come un treno, cioè: molto velocemente. Era un ragazzino sveglio, così sveglio che aveva l’intelligenza sufficiente per rigare dritto a scuola, e non farsi prendere a bacchettate come quello scemo di Vincenzo, ad esempio, che un giorno aveva chiuso in un barattolo le mignatte con cui avevano salassato suo nonno, un contadino di Materdomini che non si fidava di medici e compagnia, e l’aveva recapitata dritta dritta alla maestra, con tanto di pacco regalo maleodorante di rigagnolo acquitrinoso. La maestra, pur donna estremamente paziente, l’aveva presto a bacchettate. Non sulle mani: sulla schiena. Aveva pianto per due giorni, poi, la maestra: rimorsi di coscienza.

Dunque, Mario viveva in una grande casa, e non perché la sua famiglia fosse ricca o nobile o neanche benestante, ma solo perché erano dieci, tra fratelli e sorelle. Nove, in realtà, perché il penultimo fratello, Giulio, aveva avuto una malattia di polmoni a un anno dalla nascita ed era morto in preda a febbri altissime. Comunque, la mamma di Mario, Elisa, e il papà di Mario, Ciccillo Sparapiezzi, avrebbero da lì a poco fatto un altro bambino: lo avrebbero chiamato Giulio. Di nuovo.

Il giorno in cui Vincenzo aveva fatto quello scherzetto alla maestra e si era buscato bacchettate sulla schiena, non era stata un giorno fortunato neanche per il nostro Mario. Niente di grave, s’intende, roba di calamai rovesciati e macchie sui quaderni, e zampe di gallina… roba, ad ogni modo, per cui con meno lena del solito il nostro eroe raccoglieva cicoria sulla via che portava a casa della nonna. Come quanto ti alzi con il piede storto, e tuo fratello maggiore (il sesto figlio) ti ha rubato le scarpe, e arrivi a scuola in ritardo, e si spacca la punta del pennino, e devi fare a pugni con qualche scugnizzo di strada che vuole la tua merenda, il panino che a stento sei riuscito a difendere dalle grinfie di Vincenzo, e magari devi prenderle pure, da questi tali bulletti di strada, e… Insomma, uno di questi giorni, che per essendo ottimista -e Mario era un bambino molto ottimista- si dice proprio "questo è troppo e che diamine"…

Era abitudine che Mario andasse dalla nonna dopo la scuola e che lì trascorresse buona parte del pomeriggio (un’altra buona parte era dedicata ad attaccare barattoli alle code dei gatti con Franco), da quella donnina alta un metro e quaranta, con gli occhi azzurri profondi e gentili (si sarebbero riproposti -misteri della genetica- dopo due generazioni in una bambina chiamata Mary) … Era una donna ricca, una di quelle che aveva sia un qualche titolo nobiliare sia la roba che ti fa vivere in una casa come quella -grande lampadario di vetro di Murano, scalinata di marmo rosa, in una villa circondata da un vasto patio. Roba: terre, bestiame, la ferrovia-. Era una donna generosa: con la cameriera, con le amiche, con i nipoti. Il suo preferito, nemmeno a dirlo, era proprio Mario. Il bambino trascorreva del resto più tempo con lei che con la madre; tutti i pomeriggi erano dalla nonna. Quella casa era così calma e silenziosa, se paragonata a quella in cui, sei bambini e quattro bambina, strillavano da mattina a sera. Era così serena ed accogliente. Così pulita, se paragonata a quella in cui sei bambini e quattro bambine facevano a gara per trascinarsi più terra, sudore e lumache (per vivisezionarle). Mario le leggeva i libri di scuola, e si parlavano, si facevano compagnia a vicenda, nel silenzio ridevano e nel silenzio pranzavano, seduti a un angolino di un tavolo lunghissimo. Gli aveva spiegato perché i fiori sbocciano a marzo. Da quando era nato e aveva memoria di sé, Mario aveva memoria della nonna.

Entrò nella grande sala, salì le scale, gridò come al solito «nono» ed entrò nella stanza da letto. Era sdraiata sul copriletto ricamato, ed era morta.

 

 

Non si capiva bene

Non si capiva bene, quando succedeva, né il perché né il percome. Spariva e basta. Così, per giorni, settimane, al massimo un mese. Il padre di Mario era una figura scivolosa e instabile: quando c'era gli si parlava poco, quando non c'era se ne parlava ancora meno. Lo chiamavano Ciccillo Sparapiezzi perché quando si incazzava erano guai. Un ricordo: aveva messo le mani addosso alla moglie, un pomeriggio caldo -doveva essere estate- e Mario gli aveva tirato un secchio pieno d'acqua addosso. L'uomo si era allontanato dalla madre, ma Mario ne aveva prese tante che non se le sarebbe scordato facilmente. Eppure non sarebbe esatto pensare che quell'uomo fosse un mostro. In un'epoca in cui si dava del voi ai genitori, e in cui si facevano dieci figli, e in cui le donne non votavano, in quell'epoca non si era un mostro se si dava uno schiaffone alla moglie, o si prendeva a cinghiate un bambino ancora piccolo. Era successo solo una volta, e rientrava perfettamente nella norma.

Ad ogni modo, il motivo per cui ad intervalli irregolari il signor Sparapiezzi spariva dalla circolazione, e neanche la famiglia sembrava sapere dov'era, era che il signor Sparapiezzi era un comunista. Uno sporco, sporchissimo, incostituzionale comunista, inviso a tutti i buoni fascisti del paese. Faceva parte di un'associazione napoletana e non aveva alcuna tessera del partito. Succedeva che dovesse cambiare acque per qualche periodo, misteriosamente. In questi periodi si supponeva fosse lontano da Bagnoli. Si dava per certo che non potesse lavorare.

Per quanto donna Elisa fosse piissima e devota in special modo a Sant'Antonio, per qualche strano motivo non cadevano dal cielo i soldi per comprare da mangiare e da vestire a dieci cristiani. L'eredità della nonna andava esaurendosi a soli tre anni dalla sua morte. Elisa lavorava come sarta in una fabbricaccia nella campagna. Quando la sorellina Titina gli chiedeva un piatto di pasta alle quattro del pomeriggio, Mario non sapeva che risponderle. Che non stavano alla corte del re e non potevano permettersi quattro pasti al giorno (a stento tre, in verità se ne potevano permettere)? Non era da lui. Diceva "Sta' tranquilla" (la diceva sempre questa frase "sta' tranquillo", lo avrebbe detto anche al suo compagno di prigionia, il Cammìsa, prima che morisse di tubercolosi) e andava nel giardino di mastro Matteo a rubarle chili di ciliegie, di nespole e albicocche. La bambina si quietava per quattro ore e poi ricominciava a piangere.

Il fratello più grande, Giulio (quello vivo, naturalmente) lavorava come bracciante in una fabbrica di pomodori e praticamente manteneva la famiglia. La sorella di mezzo, la quinta figlia, Anna, aveva conosciuto un siciliano biondo e pretendeva di sposarlo, così, come se già navigassero nell'oro anche senza bisogno di una dote da costruire dal nulla.

Fu in quel periodo che un grande amico di Mario - o forse sarebbe meglio dire un suo compare, uno degli amici con cui aveva imparato a nuotare, rischiando tra l'altro di annegare nelle pozze di scarico- compì 18 anni e si arruolò in marina (nella marina militare).

Non sarebbe stato capace, Vincenzo, di spiegare esattamente il perché e il percome di tale scelta. Non sarebbe neanche esatto chiamarla "scelta". Semplicemente era una possibilità: era la possibilità di fare qualcosa che non fosse continuare a coltivare i pochi ettari di terra che erano stati del nonno e adesso erano del padre e tra pochi anni sarebbero stati suoi. Funzionava, l'intera questione della marina, in modo abbastanza semplice: bastava consegnare un foglio con la firma del padre, superare una visita medica, e poi ci si imbarcava su una nave, una grande nave piena di topi su cui si mangiava pane secco e gallette. I cibi in scatola stavano per essere inventati in quegli anni a migliaia di chilometri di distanza da un americano di nome Smitherson. Dunque, il vitto e l'alloggio erano gratis, in più si riceveva un salario, una paga o non sapremmo come chiamare quel compenso, e beni di prima necessità: sigarette.

Se a Mario avessero chiesto il perché e il percome della sua propria decisione di arruolarsi in marina, sarebbe stato capace di rispondere che era un buon modo di non gravare sulla già disastrata economia familiare. Che gli sarebbe piaciuto finire la scuola -e aveva una vocazione naturale per studiare, soprattutto musica (suonava il clarinetto) ma che per ore non era il momento, con tutta la buona volontà. Ma aveva quindici anni e un padre non disposto a firmare nessun foglio né a permettere che suo figlio si immischiasse in una questione di eserciti e marine. Fascisti di merda.

 

 

Ci vuole molto poco

Ci vuole molto poco a falsificare la firma di un genitore, e un figlio di quindici anni è già un uomo, non puoi mica trattenerlo. Fu così che Elisa si raccomandò al padreterno, solo dopo aver fortemente osteggiato la decisione del figlio e di aver usato tutte le armi psicologiche e non che una madre può usare in questi casi. Affatto inefficaci. A settembre dell'anno millenovecentotrentanove Mario si imbarcava su una nave militare. Faceva il marinaio, ma questa è una parola grossa per un ragazzino di quindici anni che pulisce con sputo i pavimenti di una nave su cui cinquanta uomini trascorrono le loro giornate. Faceva il mozzo, lo sguattero, il lavacessi, all'occorrenza. Era il mese di Settembre e il vento increspava il mare verde e in bassa marea. L'Europa era sottosopra e Mussolini parlava alla radio. Schemi binari e ternari, che avevano un ritmo semplice, naturale, in cui era facile riconoscersi. Binari: "Le mie idee sono chiare, i miei ordini precisi". Ternari: "Lo stato aggressore, costituzionalmente dedito alle aggressioni, è l'Abissinia, soltanto l'Abissinia, nessun altro all'infuori dell'Abissinia". Aveva fatto una pausa dopo quest'ultima parola, Abissinia, e, qualche anno prima, a Caivano il maestro di scuola aveva detto ai contadini che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una buona terra. Ma i contadini scuotevano il capo, diffidenti, silenziosi, più tristi e cupi del solito… (Quella guerra era incominciata in quella indifferente tristezza per i contadini di Caivano, e quelli di Bagnoli).

I primi mesi in marina trascorsero tranquillamente: Mario si adattava molto facilmente a nuovi ambienti, di qualunque genere, dovesse dormire in un letto umido e sporco, respirare aria stantia e lavarsi con acqua gelida, e svegliarsi nel cuore della notte per i colpi di tosse insistenti del proprio compagno di cabina. Riceveva una stecca di sigarette alla settimana: prendeva il pacco e lo rispediva al suo indirizzo, a Bagnoli dal padre.

E il padre di Mario fumava per dimenticare le inutili battaglie di Gramsci e le botte che prendeva quando lo andavano a chiamare nel cuore della notte; quando ritornava a casa in un mare di escrementi e sua moglie lo aiutava a ripulirsi, perché succedevano di queste cose, e anche di peggio, in un paesello non lontano dal Golfo di Napoli, succedeva che un uomo tornasse dalla moglie umiliato fino a strisciare nel bagno di casa sua, piangendo come un bambino di fronte alla sua donna, implorando e giurando che mai più sarebbe successo, che si sarebbe fatto una tessera…e tornava a succedere; è una maledizione sentirsi obbligato a conservare il proprio onore e la propria dignità di uomo.

A Maggio del millenovecentoquaranta Mussolini era ormai convinto che il suo futuro alleato avesse l'Europa in pugno. E che Roosevelt si offrisse di fare da mediatore tra noi e gli alleati…poco importava. Ci vuol altro per dissuadere Mussolini. "Se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe".

 

La nave di Mario

La nave di Mario fu presa quando si era ormai diffusa la convinzione che la fine della dittatura fascista avrebbe portato a una rapida fine della guerra e delle sofferenze. Non fu così. Nel Luglio del 43 lo sbarco americano in Sicilia era stato salutato dalla popolazione italiana con un familiare entusiasmo. Lo stesso dimostrato a Mussolini sotto il balcone di P.zza Venezia, ad esempio. Sono gente passionale, e romantica, gli Italiani.

L'Italia si trovava divisa in due - il Centro-Nord sotto i tedeschi, il Sud sotto "gli alleati"- ed era percorsa e contesa da due eserciti avversari, che si combatterono per ventun mesi.

Era Settembre, e il vento increspava il mare verde e in bassa marea.

Incominciò il calvario. L'intero equipaggio fu fatto prigioniero e la nave diretta verso nord. A Genova, sotto gli spintoni e i colpi nello stomaco la nave attraccò e l'equipaggio venne caricato su un treno. Gli uomini stavano stretti e l'aria era irrespirabile come quella di una scatola chiusa da sempre. Durò giorni che furono anni, e non come può durare anni il tempo di un…un'interrogazione. Il viaggio durò anni e quando finì, era come l'inverno di venticinque anni dopo.

 

 

Ottobre in Polonia

Ottobre in Polonia è freddo come fosse Natale. E cosa aveva pensato Mario per tutto questo tempo. Quando era incominciata la guerra, e quando sembrava che Hitler dovesse vincere. Quando venivano le notizie dall'oceano Pacifico, ché il Giappone si alleava a Germania e Italia. Quando Radio Londra parlava della battaglia di Stalingrado, e gli Americani sbarcavano in Sicilia, Mario aveva diciassette anni. Quello che passa per la testa di un ragazzo di diciassette anni mentre viene deportato in Polonia su di un treno che sembra una scatola chiusa da sempre, questo non può saperlo nemmeno un narratore onnisciente.

In Polonia, non diremo che il campo di lavoro somigliasse ad un campo di sterminio, perché non siamo narratori onniscienti, e perché ci può arrivare chiunque, chiudendo gli occhi, a immaginare cosa può arrivare a costruire l'uomo: un ammasso di cemento freddo come una bara e nero come la morte. Il lavoro consisteva nel tingere tessuti, né sapremmo scendere nei dettagli. Il lavoro occupava l’intera giornata: tranne una "pausa-pranzo", di venti minuti, in cui veniva distribuito pane nero e una sbobba liquida, o una cipolla. Si cominciava il mattino all’alba e si finiva la sera al tramonto. Passarono le prime due settimane, e successero due cose importanti: innanzitutto, Mario conobbe Cammìsa. Era un ragazzo italiano, che piangeva qualche volta cantando le canzoni in milanese. Se la prigionia aveva cambiato la indole di Mario, se lui fosse una persona diversa prima del settembre 43, non lo sapremo mai. Sappiamo che, espansivo per natura, Mario aveva legato da subito con Cammìsa (e chissà perché poi lo chiamavano Cammìsa), che gli raccontava della sua vita, gli raccontava di Milano e del Duomo, la Madunina d’oro che sovrastava la piazza più grande del mondo. Mario pensava che la città di Cammisa sarebbe stata la prima in cui sarebbe andato se e quando lo avessero liberato (avrebbe visto l’Isola d’Elba, invece,come prima cosa). Il secondo fatto degno di nota, allo scadere della seconda settimana, fu un ufficiale che entrò sbraitando nel dormitorio all’alba e strillò in quella lingua, sputando, che i nazisti non perseguitavano i veri fascisti, e chi si fosse trovato in quel luogo "per una semplice svista" poteva tranquillamente andarsene, e mille scuse. I veri fascisti potevano andarsene, e per essere veri fascisti si firmava un semplice foglio in cui si affermava di esserlo. Veri fascisti. Lì per una svista. Tornano a casa. (firmando un foglio).

Noi, ci duole ammetterlo, non sappiamo che cosa passa nella testa di un diciassettenne che dice "nein"; non lo sappiamo affatto, perché non ce lo disse mai, Mario, e se si fosse vantato un po’ di più di quella risposta da eroe noi ne sapremmo raccontare meglio le circostanze e le motivazioni. Invece sappiamo solo che disse "nein", come se la persona che disse nein sessanta, settanta anni fa fosse per noi una sconosciuta, un foglio bianco, che dice nein perché si chiede "sono un vero fascista?" e si risponde...nein. E non aveva pure nostalgia della mamma Elisa e non ne prese tante dal padre solo per difenderla da uno schiaffo?

Quelli che erano rimasti furono trattati con un astio e una rigidità impensabili: lavoravano il doppio, e mangiavano la metà. Dopo una settimana ancora, furono trasferiti in Germania.

 

 

L'infermiera del campo di prigionia

L'infermiera del campo di prigionia in Germania si chiamava Rosita. Era belga, parlava il francese e il tedesco, e si era innamorata di Mario, a quanto pare. Fu così che Mario imparò il tedesco, parlando con l'infermiera nei rari momenti in cui si poteva parlare. I campi di lavoro e i campi di prigionia non sono luoghi delle parole. Se ne dicono poche, e se ne sentono ancora meno: urlate, e in una lingua straniera. Ma che ne sappiamo noi. Sappiamo solo quello che abbiamo letto, e quello che ci è stato raccontato a distanza di tanti e tanti anni, quando il ricordo di quelle parole urlate in tedesco si assimila al ricordo della giovinezza e dell'infermiera che passava una fetta in più di pane nero. Che ne sappiamo noi. Di cosa significa essere internati. Ne abbiamo sentito parlare tante di quelle volte, ma che ne sappiamo veramente. Facciamo perfino fatica a ritrovare lo stato d'animo di quando a cinque anni ci hanno raccontato…che un uomo aveva passato da parte a parte con la baionetta un altro uomo, che si era fermato a raccogliere una patata…

La strada dai dormitori al vero e proprio campo di lavoro si percorreva a piedi quasi scalzi, nonostante fosse inverno, e novembre in Germania è come fosse…niente che Mario avesse mai sperimentato, perché anche a Natale a Napoli non nevica quasi mai. Lì nevicava già. A Novembre. Del resto per quello che avevano addosso ci sarebbero potuti anche essere sette gradi e avrebbe fatto freddo lo stesso. A Milano, diceva il Cammìsa, faceva altrettanto freddo, ma si indossava il cappotto beige, quello con il collo di volpe. Il Cammìsa se lo ricordava benissimo, quel cappotto. Glie lo avevano regalato per il compleanno. Forse, a pensarci bene, era per quello che lo chiamavano Cammìsa: perché era un signore, e si distingueva anche se era conciato esattamente come tutti gli altri.

La strada che separava i dormitori dal campo di lavoro, comunque, veniva percorsa dai prigionieri in fila indiana, a ritmo sostenuto, perché non si perdessero neppure pochi minuti della giornata lavorativa. La mattina, all'alba, i prigionieri vedevano sfilare i camioncini con quei pochi viveri che gli sarebbero toccati a pranzo. Casse di pane nero, verdure marce con cui sarebbero state cucinate brodaglie inconsistenti e infestate di scarafaggi, sacchi di patate. Da uno di questi ultimi cadde un giorno una patata, mentre i prigionieri marciavano. Cadde una patata dal camioncino e rotolò lentamente: rotolò, rotolò, rotolò su se stessa e si fermò proprio ai piedi di un uomo magro, con le guance scavate, e la faccia della sofferenza, e gli occhi tristi, più tristi ancora di quelli dei suoi compagni. Così tristi che sembrava piangessero anche quando non lo facevano, tristi come una maschera di pierrot. La patata scelse proprio quell'uomo, un uomo di una certa età, con quelle guance e quegli occhi. Rotolò, rotolò e si fermò ai suoi piedi. Anche altre patate scivolarono dal camioncino e cominciarono la loro corsa. Presto fu il disordine. La fila si fermo e il generale, il comandante, il kapò gridarono qualcosa, che andassero avanti, i prigionieri, che riprendessero a comminare invece di sprecar tempo in quel modo. Fu un attimo, ci volle un attimo perché l'uomo si abbassasse a raccogliere la sua patata, quella che lo aveva scelto, lui su centinaia. La raccolse in un lampo e la nascose nella giacca.

Che aveva fatto mai. Cosa aveva fatto quell'uomo di tanto grave, perché tutti si ammutolirono, più silenziosi di quanto fossero muti prima, e respirarono piano, e perché a Mario, che aveva l'uomo e la patata proprio davanti ai suoi occhi, si gelò il sangue nelle vene per un attimo e sentì una piccola fitta al cuore? Il comandante gridò alt.

La fila era ferma, e non si sarebbe riuscita a smuovere neanche in caso di ordine contrario. Era una questione di vita o di morte, stare lì, immobili, in attesa del verdetto che, pareva, avrebbe deciso della vita di ognuno. Il comandante si avvicinò e trapassò da parte a parte l'uomo triste con la sua baionetta -zac- : la colonna si rimise in movimento.

 

 

 

Rosita aveva un gatto

Rosita aveva un gatto, lo chiamava con i più strani appellativi. Erano tutti nomi francesi che terminavano con una "ì" accentata. "Phiphì", "Jolì", Fanì" di qui e di lì, di su e di giù. Era un gatto ben pasciuto e con un'espressione - come se gli animali potessero avere un'espressione, e non fossimo noi uomini ad appiccicargliene una sul muso a seconda dei nostri stati d'animo…- "pacifica": nota stonata in quel clima di guerra. Glie lo lasciavano tenere, il gatto, perché la teoria era che servisse a cacciare i topi. Ma in realtà la padrona lo abboffava talmente, con gli avanzi del rancio degli ufficiali, che il felino mai più si sarebbe messo a combattere con ratti che, oltretutto, erano grossi il doppio di lui. Così si aggirava per le cucine, il gatto, e per la sala mensa quando i prigionieri mangiavano. E pure dal gatto bisognava difendersi: come voltavi le spalle, quello ti sgraffignava sotto gli occhi la fetta di pane, la zuppa, la patata.

Nevicava, e la neve attaccava subito per terra: la coltre era ormai talmente spessa che si affondava fino al ginocchio, a camminare dal dormitorio al campo di lavoro. Si arrivava tutti bagnati a lavorare per sedici ore nel casermone…per quanto il fisico si sforzasse di ristabilire una temperatura accettabile, a furia di brividi e di batter di denti, qualcuno arrivava a pensare di poter morire, così, semplicemente per il freddo. Si può morire di freddo? Senza arrivare mai proprio all'assideramento - tutti sanno che si può morire assiderati - si rimaneva in quel limbo, del freddo che ti sembra veramente di morire. E che non puoi evitare. Devi solo sopportarlo. Fu in quel periodo - e parliamo di fine dicembre - che il Cammìsa cominciò a tossire e a indebolirsi e a sputare sangue. Mario aveva freddo. E molta fame.

Il gatto, abbiamo detto, si aggirava a piede libero per le cucine, di giorno, di notte, a qualsiasi ora. Fu allora che gli venne l'idea.

"Fa' piano" ingiungeva Mario al Cammisa, mentre i due si addentravano nella sala mensa alle due di una notte limpida.

"Ma… so no mì, se le ghe il cas…"

"Il cass, il cass, certo che è il cass… e che, vuoi morire di fame, tu? Io proprio no, grazie. Facimm ampriess, e chi s'è visto s'è visto"

"Eccolo, lì, dietro al banco, il micio"

"'Sto gattaccio, vedi che ti faccio mò che ti piglio…Dai Cammìsa, dagli una botta, una sediata in fronte"

"Io, e perché io"

"E perché tu, perché tu, qualcuno lo deve pur fare, -scusa gatto, niente di personale, eh, sia chiaro, ma qui noi stiamo a crepare di fame-"

"E dagliela tu la botta"

Mario prese un sgabello e diede un colpo secco sulla testa del gatto. Un colpo di notevole precisione. Fece perfino meno rumore del previsto. Un miagolio sordo e breve: come ammazza-gatti, una carriera assicurata.

Lo portarono fuori, e scavarono una buca nella neve. Il gatto surgelato se lo mangiarono la notte dopo in relativa tranquillità. La carne non sapeva quasi di nulla, e quel poco di gusto non era sgradevole. Dopo aver mangiato solo carboidrati - e pochi - per mesi, i due amici, uniti dal segreto del delitto come i congiurati di Catilina, si sentirono rinascere.

 

Il Cammìsa tossiva sempre

Il Cammisa tossiva sempre più spesso, e sputava sangue. Un giorno Mario non lo trovò più, da nessuna parte. Lo cercò nei dormitori nella mensa, nel campo e nei cessi, e non ce n'era traccia. A chiedere agli altri, nessuno se ne ricordava.

Gli ufficiali del campo

Gli ufficiali del campo - più in generale ufficiali, sottufficiali, responsabili della disciplina, sorveglianti…- vivevano anch'essi la loro vita nel campo, appunto. In una sede staccata, è vero, in cui avevano stufe a gas, e cibo più in abbondanza, e acqua calda, ma pur sempre nel campo di lavoro, lontano da mogli, fidanzate, amici, cinematografi, "civiltà"- ecco, lontani da qualunque tipo di civiltà, soprattutto.

Dovevano pur svagarsi in qualche modo. Avrebbero gradito - che so - un po’ di musica. Un po’ di musica…e dove li avrebbero trovati i musicisti.

Un biondo entrò nella camerata di soprassalto e chiese ai prigionieri, che non sobbalzavano nemmeno più ormai, talmente si erano abituati alle continue irruzioni, chi di loro sapesse suonare uno strumento. Che facesse un passo avanti. Mario aveva fatto la scuola di musica a Bagnoli e suonava il clarinetto. Aveva fatto la scuola, la scuola di solfeggio (il libro su cui aveva studiato, "Bona" lo avrebbe regalato - quel libro, a distanza di sessant'anni - ad una nipotina alle prese con una maestra di pianoforte all'antica) ma suonava anche a orecchio, qualsiasi strumento; gli bastava quel poco tempo per capire come funzionava. Dunque si fece avanti, assieme ad altre quattro persone - uno, un musicista di professione -. Fu così che sopravvisse ad altri sei mesi di prigionia. I musicisti avevano doppia razione di tutto, e molto pane nero. Mario si era arruffianato un sottufficiale. Era stato preso in simpatia. Forse dovremmo semplicemente dire che i due erano diventati amici. Anche un sottufficiale in un campo di lavoro tedesco nel 1944 può diventare amico di un ragazzo italianen di Bagnoli. Neanche-loro-erano-mostri. Forse esprimiamo un cliché. Forse era un mostro chi ha passato da parte a parte con la baionetta quell'uomo triste. Ma forse era una semplice parte dell'ingranaggio. Un po’ più in alto, ma simile a tutti quegli italiani che possedevano una tessera del partito "per quieto vivere", nei migliori dei casi, o perché pensavano di credere veramente di fare la migliore delle cose possibili in quegli anni, in quella nazione… Perché delle tre parole credere-obbedire-combattere forse capivano solo il significato della parola "obbedire"…E forse tanti, ancora oggi, in barba a chi è morto, a chi ha mangiato un gatto congelato sotto la neve, a chi è stato passato da parte a parte con una baionetta, tanti ancora oggi obbediscono senza domandarsi mai in cosa credono e per chi combattono. Se per loro stessi e per i loro simili, o per mandare avanti un ingranaggio fatto di molte piccole parti.

Milioni di persone che vivono per quiete vivere, e vivono con i paraocchi, e ci additano come…anarchici. In barba a chi è morto, a chi ha mangiato un gatto congelato sotto la neve, a chi è stato passato da parte a parte con una baionetta, assecondano qualsiasi autorità, diventandone l'essenza.

Sono passati tre anni

Sono passati tre anni da quando sei morto. Mi portavi ai giardinetti al monumento ai caduti (mi veniva sempre da piangere, da quando avevo saputo cos'era) e compravamo il panino per darlo ai piccioni. Quando venivo a casa tua c'erano sempre tantissime cose da mangiare, di tutti i tipi. Mi friggevi le crocchette di patate e mi facevi il purè. Sempre tantissimo, e quando ti dicevo che ero piena mi dicevi sei sicura. Insistevi sempre perché assaggiassi qualcos'altro. Forse non mi rendevo conto che per chi ha sofferto la fame è importantissimo. Insistere di fronte a un "no grazie".

Dovevi montarmi l'antenna parabolica, avevo quattordici anni e mi avevi promesso che avrei potuto guardare la bbc quando volevo, non solo a casa tua. Se sapessi come parlo bene inglese adesso, anche se non ci sei riuscito a montare la parabola. Avevamo appuntamento Mercoledì e sei morto Martedì. Quella mattina piazzale Corvetto era allagato e quando sei arrivato in ospedale, quanto tempo era che non arrivava sangue al cervello?

Mi raccontavi le storie della guerra quando avevo cinque anni, e quante volte te l'ho fatta ripetere la storia della baionetta? Forse non ci credevo? Mi raccontavi che si soffiavano il naso addosso ai prigionieri…E ce n'erano tante, ma non me le ricordo.

Mi hai insegnato a giocare a dama e a poker, ma anche poker non ricordo più come si fa. Ti obbligavo a giocare con me per ore, a scala quaranta soprattutto, perché con la nonna non mi divertivo.

Quando ho rotto la videocassetta della mia amica - me l'aveva prestata ma era un pezzo rarissimo, un concerto dei take that forse?- mi hai detto "sta' tranquilla" e hai aggiustato il nastro con lo scotch. Quella volta mia hai salvato la vita.

Mi hai insegnato a duplicare illegalmente le cassette di blockbuster.

Dicevi che se qualcuno mi faceva del male gli sparavi in fronte, ce l'avevi una pistola. Al diavolo la non violenza, così mi sentivo perfettamente al sicuro. Bastava che dicessi "sta' tranquilla".

Vorrei non aver dimenticato niente. Invece.

Se ho saputo dell'esistenza di una seconda guerra mondiale quando ancora non avevo cinque anni, se ho saputo dell'esistenza di un tempo, un tempo in cui si ammazzavano gli uomini con una baionetta zac, ed era finita. Se ho saputo che in quel tempo, un tedesco si soffiava il naso sulla faccia di un prigioniero. Si mangiavano i gatti congelati sotto la neve, per poter sopravvivere; se ho saputo che un uomo alto un metro e settanta pesava quaranta chili, e l'ho sentito sulla pelle, l'ho sentito da parole calde e vive, se ho saputo tutto questo, lo devo al nonno.

..e forse sono arrivata ad un punto della mia vita, un punto in cui mi dico… Un punto per cui mi viene in mente quello che dicono gli indiani, quello che dicono del sentiero che ognuno di noi deve percorrere, dicono…

Se non sai dove stai andando, voltati per vedere da dove vieni.