Raffaella Silvestri

UNA STAGIONE DI FEDE ASSOLUTA

Le mie mani bagnate stringevano le tre chiavi di casa: una per il portone, due per la serratura della porta. Abitavo non distante dalla Darsena, sopra un locale rumoroso che adesso è diventato una finta balera caraibica, ma allora era un finto pub inglese con il bancone in legno e le targhe delle birre alle pareti, in un palazzo vecchio col portone semi-blindato.
Le mie mani bagnate stringevano le tre chiavi di casa, dunque, e in quel momento il tram semivuoto di martedì mi sembrò un habitat così inadatto ad ospitare la mia vita. La plastica nera del pavimento creava uno stridente contrasto con i sedili, colorati con quell'arancione acceso di un pennarello giotto all'asilo, secoli prima. Era un habitat così inadatto, a chi si portava un inferno dentro, e quella luce lampeggiava in rosso e mi accecava come neanche un sole d'agosto tra l'asfalto milanese avrebbe potuto fare.
La luce lampeggiava, ricordava ai miei compagni di viaggio che la fermata era prenotata, a me che altri minuti mi separavano da casa, dal luogo in cui avrei potuto piangere senza per questo sentirmi meno uomo.
Soffrivo terribilmente come soffre uno che soffre e non può fare niente per evitarlo, per evitare di tremare, di sentirsi solo e vuoto.
Il cielo era sereno quel giorno; c'era l'azzurro, c'era il bianco candido di qualche nuvola di panna, troppo buona per essere poetica.

La scuola distava da casa mia non più di sei, forse sette fermate: era comodo, era un buon incarico, era la prima volta. Supplivo per un anno, supplivo una donnetta colorata e grassottella, l'avevo vista una volta per via del programma: aveva non poche remore a lasciare la sua classe nelle mani di questo spilungone appena laureato. La ricordavo: si raccomandava, che li imbottissi bene di paradigmi, quelli non fanno mai male, e qualche poesia a memoria, ché si-addormenta-il-cervello-di-questi-ragazzi. Era peculiare l'impressione che ne avevo ricavata: amava i suoi alunni come una chioccia ama i suoi pulcini, come un botanico esperto ama i suoi fiori, e più essi crescono, come lui vuole che crescano, più il suo cuore si riempie di tenerezza, e li coccola, e li accudisce, li protegge con cura spasmodica.
Erano trascorsi otto mesi dall'inizio dell'anno scolastico, e io avevo trovato nel Liceo Ginnasio Statale Clemente Rebora le due correnti che mi avrebbero trascinato con uguale vigore e violenza verso due mari invece diametralmente opposti. La prima era naturalmente rappresentata dalla passione, "vocazione" direi, che mi aveva legato all'insegnamento, al lavoro che avevo sognato e desiderato ancora prima di laurearmi in lettere antiche.
Il ruolo dell'insegnante, faccenda complicata. Ne avevo avuti così tanti, io, di maestri, buoni o cattivi, carismatici e ispirati o grigi e piatti. Avevano in ogni caso avuto un'influenza così radicale e profonda sul mio essere, che ancora ne sentivo, ne sento gli effetti. Forse nessuno si rende conto appieno del potere che un uomo si ritrova in mano, tutto ad un tratto, quando decide di sedersi al di là di una cattedra. E un uomo, seppure un uomo "al di là" della cattedra, è solo un uomo. E' come mettere una mattonella di das nelle mani di un bambino. Cosa potrebbe fare il piccolo? Potrebbe plasmare figure meravigliose, seguendo la sua fantasia; oppure potrebbe giocare un po' e poi stancarsene, abbandonare il das in un angolo della sua cameretta, mostrando poi solo insofferenza solo alla sua vista. La mia professoressa al ginnasio, ecco, me la porto ancora dentro. La sua stanchezza esasperata ed esasperante, quella rassegnazione negli occhi... al ginnasio, le sue lezioni ed i miei giorni erano scanditi dal ritmo incessante e sempre uguale di un pendolo antico. Faceva il suo dovere, forse faceva anche qualcosa per nascondere quanto le faceva schifo farlo. Ad ogni modo non ci riusciva per niente, il suo odio per quel lavoro noi lo leggevamo ogni giorno in quelle lezioni scandite dall'immaginario pendolo, parole sempre uguali, parole neutre, parole distaccate. Avremmo potuto fare di tutto, il pendolo non avrebbe rallentato, né accelerato, né tanto meno si sarebbe arrestato. Ton. Ton. Ton. Ton. Lo sapevamo tutti, era come una regola immutabile nell'Ordine Inalterabile delle Cose della Vita, nel micro-cosmo chiamato "scuola". Ton. Ton. Ton.
Mi porto dentro anche una donnina piccola piccola, in una scuola media di periferia. Credo che il mio carattere si sia fermato proprio in quel periodo: gran parte di ciò che è stato prima lo ricordo come se fosse un passato appartenuto a qualcun altro, non a me. La mia storia comincia con I Racconti di Poe in prima media, e Cime Tempestose e le poesie di Emily Dickinson. Comincia con l'entusiasmo e la passione di lezioni così vive da spaventare, scoperte impensabili fino a poco tempo prima, porte che si aprivano per non chiudersi mai più, lo sapevo fin d'allora. Posso dire di essere fatto delle lezioni della professoressa Dotti; amo quello che allora imparai ad amare, anche grazie a lei. In quella classe, in quell'atmosfera elettrica respiravo emozioni non filtrate, sentivo ogni nuova esperienza come qualcosa di fisico, e lei era così aperta, tesa a comunicare le sue vere conoscenze, le sue vere passioni, "questo è mio, vorrei che diventi anche vostro, anche tuo".
"Anche tuo": professore alle prime armi, il pensiero da cui ero assorbito era quello di non mortificare l'individualità di ogni singola persona tra le venti che mi sedevano di fronte sedici ore la settimana. La loro personalità non ancora compiuta doveva esprimersi in maniera completa. I miei alunni erano ancora freschi e ingenui, e a loro io dovevo "insegnare ad imparare" in tutte le forme e i modi possibili; dovevo offrire loro in abbondanza tutto ciò che la loro anima necessitava per formarsi.
Non so. In realtà ero meno bravo di come probabilmente sembra, e di come avrei voluto. In realtà avevo grandi difficoltà a seguire un programma scolastico con un minimo di continuità. In realtà non seguivo il corso logico degli avvenimenti, non sempre. Ero invece a volte qua e a volte là, nella paura talvolta esasperata di ritrovarmi da un momento all'altro a sdottorare dall'alto della mia cattedra.
Questo comportava dei problemi non trascurabili. Ad alcuni, forse a molti, non piacevo. E' che mi ero scontrato con la realtà, anzi, ero caduto nella realtà, e con un tonfo pesantissimo, all'inizio della mia carriera di insegnante. Ero arrivato ed avevo pensato a lezioni in cui veramente non sarebbero esistite "parti" Avevo pensato a rompere l'equilibrio in cui il docente è Autorità Costituita. Avevo pensato a rompere lo Stato Prefissato e l'Ordine Inalterabile delle Cose della Vita, generando una soluzione assai più fluida, in cui le regole sono riscrivibili in ogni momento per tenere conto delle esigenze di tutti, ma davvero di tutti; una micro-società in continua ridefinizione. Non avevo tenuto conto del fatto che ciò a molti non sarebbe piaciuto, o, peggio ancora, a molti non sarebbe interessato. Nella società in continua ridefinizione l'individuo insicuro che ha bisogno di una norma a cui adeguarsi per stare in piedi rischia di trovarsi per terra ogni tre minuti. E, in effetti, ce n'erano di individui di questo genere. Ce n'erano di ragazzi che riuscivano a rispettare solo chi "faceva paura", chi si metteva in alto e minacciava ora-ti-schiaccio ogni due per tre. Chi non si mostrava mai debole perché sdottorava e sdottorava, e poi gridava, gridava e non sentiva niente. Non sentiva mai niente. Ma in realtà c'erano anche individui - ed erano molti - che nell'anarchia sensata della mia classe, nell'assenza di organizzazione vertical-tirannica trovavano l'ambiente ideale per avvicinarsi alla cultura.
Poi c'erano i colleghi che storcevano il naso, storcevano il naso diobbuòno, e mi parlavano come si parla ad un adolescente ribelle, di quelli che fanno i rivoluzionari e rubano i registri per fare l'okkupazione. Ribelle ma prevedibile, è-una-fase, capirà.
Poi c'era Minghelli, che storceva il naso anche lui diobbuòno, eppure lo faceva in modo non del tutto pedissequo a quello degli altri. Storceva un po' il naso sulla poltroncina di velluto verde nell'aula fumatori, nascosto dalla nube grigia che soffiava dalla bocca ad intervalli regolari. Filosofia e storia al liceo, Minghelli, notevole caratura intellettuale, alto un bel po', alto come me, capelli che perdevano il nero avendo resistito non poco... forse quarantacinque primavere, così ad occhio e croce. Allora storceva il naso come la Robuschi e la Tora e il preside ed era altrove con gli occhi. Dove. Non dov'ero io, non era a dirmi ma-sì-in-fondo-hai-ragione-tu, di certo no, era da qualche altra parte che magari era una mia impressione. E' che mi sembrava un personaggio non paragonabile agli altri, sebbene non facesse assolutamente nulla per meritarsi questa mia distinzione. Sebbene parlasse come la Robuschi e la Tora e il preside di questo o di quel ragazzo svogliato ai genitori in visita, sebbene l'unica distinzione oggettiva possibile consistesse in quella specie di tentativi di "psicanalizzare il giovane" che io stesso non potevo che definire patetici... malriusciti e patetici... Era sicuro di sé, ma la cosa notevole, il segreto, era nascosto negli occhi... ecco, come dire, tristi forse?
Un giorno avevo la terza ora "buca", allora correggevo questi compiti di verbi fatti un bel po' male, per la miseria, e mangiavo una di quelle porcherie ad alto contenuto di grassi, patatine forse, pop-corn forse, non ricordo. "Me ne dai uno-". Se ne stava in piedi davanti al tavolo, appena entrato nella stanza, sicuro e adulto nel formulare quella richiesta così poco seria e puerile, e non capivo se veramente voleva il  pop-corn o magari si riferiva a qualcos'altro, qualcosa di serio senza dubbio, qualcosa di sicuro e adulto come il tono della sua voce. Vidi me stesso nascondere la mano unta e salata sotto il tavolo della sala professori, come un bambino che viene colto in flagrante a mangiare la nutella prima di cena, vidi me stesso forse sbarrare gli occhi e dire "eh?" con quella vocale aperta milanese. "Dicevo, mi offriresti un pop-corn-."
Uhm. Certo. "Allora hai la quinta, la cattedra unita, sedici ore con le stesse persone... ieri passavo davanti alla porta della classe, ma che ci fate lì dentro, la guerra?". Parlava male. Vale a dire, parlava normalmente, non da professorone o da iperintellettuale in visita tra i mortali. O forse voleva solo fare il simpatico, lo spiritoso, Dio sa cosa. Allora, se fosse stato un qualunque altro collega a rivolgermi una frase di questo genere avrei risposto male, con una di quelle risposte brutte e cocciutamente spoglie di compromessi; avrei sbottato con parole un po' violente in difesa ad una frase che se fosse stata pronunciata da qualcun altro sarebbe suonata come un attacco più gretto che sottile. Sorrisi e dissi "a volte", senza sferrare attacchi né abbassare la guardia, senza pensare a nulla di particolare, meravigliandomi solo del fatto che Minghelli aveva detto qualcosa di comune in modo non del tutto comune, mi aveva chiesto un pop-corn e io gliel'avevo offerto. Si era seduto di fianco a me al tavolo ovale della sala professori, con in mano il Corriere tutto disordinato, aveva sorriso; sembrava compiaciuto, no, non compiaciuto, vagamente divertito chissà da cosa. Da come mi ero comportato, da quello che avevo detto, da quello che lui stesso aveva detto. Aveva sul viso ben rasato un sorrisetto fatto come di un'ironia superiore, che però non risultava sgradevole, un'ironia superiore che sembrava dovuta neanche tanto al caos che usciva dalla mia classe; sembrava più rivolta a tutto quanto il creato, in quell'istante. In quell'istante, perché mi era capitato di vederlo serissimo.
Ripresi la mia occupazione dal punto in cui l'avevo lasciata: il futuro passivo di gìgnomai. Genethésomai.
Così, ad Ottobre avevo tenuto la mia prima conversazione con Sergio Menghelli; così, con la mano sporca di sale di pop-corn ritratta sotto al tavolo. Così egli mi aveva interessato e ispirato, perché no, simpatia; l'avevo sempre visto come il professore rinchiuso nel suo intellettualismo snob e inutile e fuori dal mondo. Come fulminato invece dalla scoperta che anch'egli mangiava pop-corn, come se questa semplicissima scoperta mi avesse aperto nuove vie di interpretazione, importanti e complesse.
Ma questi sono pensieri posteriori, in quel momento dovevo solo avere l'inconscia convinzione che quell'episodio sarebbe scivolato nella spietatezza di quella che chiamiamo "memoria a breve termine".
Tornavo nel monolocale un po' umido non-distante-dalla-darsena, sempre in un ottobre più freddo della media. Sul marciapiede di fronte al finto pub inglese, due finti hooligan si accapigliavano per una di quelle questioni di principio, credo che nello specifico si trattasse di una ragazza, una ragazza bruna troppo alta, con due ciocche di capelli biondo bianco. Pensavo alla mia, di ragazza, una ragazza bella come una cascata di acqua limpida e bella, bella come una ninfa di bosco, con quei capelli rossi e gli occhi verdi e le lentiggini sul naso che si era scottato vicino al mio naso su una spiaggia ligure, due mesi prima. Una ragazza magra dall'intelligenza veloce, veloce nel decidere su quale treno salire, veloce nel consigliarmi quale medicinale prendere, veloce nel calcolare i tempi, le quantità e le distanze. Veloce nel dare gli esami di ingegneria, uno dopo l'altro.
Entravo nell'ascensore, arrivavo al secondo piano, aprivo la mia porta, squillava il telefono.
Avevo programmato la segreteria telefonica al secondo squillo, e ora sentivo la mia voce registrata che mi difendeva da possibili telefonate indesiderate.
"Sono Caterina. Se ci sei rispondi. Alessandro. Alessandro?" "Caty. Ciao Caty."
"Ciao un corno-"
E così in otto, forse nove minuti ininterrotti Caterina mi aveva vomitato addosso tutte le cose brutte e intollerabili che di me non poteva più sopportare, tante cose, tutte le cose che mi rendevano inequivocabilmente me stesso, e di cui, quindi, non potevo vergognarmi. Le cose che non aveva mai sopportato ma anche quello che credevo le piacessero. Le vomitava con un astio di ninfa arrabbiata, mi diceva che ero arrogante e illuso, che pensavo di conoscere le persone ed il mondo perché lo avevo letto, che mi credevo un personaggio suggestivo, da romanzo, un personaggio senza compromessi, estremo. E invece non era vero un cazzo, diceva, e che imparassi a stare in un bar e a parlare con un barbiere. Che la smettessi di credere di possedere sempre "la miglior alternativa possibile", che la smettessi di credere di aver capito tanto della vita. Pensavo di aver capito tutto della vita, mi strillava, invece ero chiuso come un riccio chiuso, pronto a tirare fuori gli aculei e ad etichettare chiunque non la pensasse come me. Pronto ad assegnargli un posto in quell'Ordine Inalterabile delle Cose della Vita, senza chiedermi invece chi fosse o cosa pensasse. Senza chiedermi - cosa ancor più importante - se quello che gli altri pensavano potesse arricchire anche me, senza mettermi in gioco mai, senza permettere a nessuno di scalfire le mie inespugnabili certezze. Avrei potuto incontrare chiunque - continuava Caterina con una lucidità nascosta dal tono arrabbiato e offeso e indignato - ma non mi sarei mai spostato di un centimetro: io avevo ragione, in fondo, io avevo ragione ed ero un gran bel personaggio, e tutti gli altri erano automi e schiavi della società. Io ero l'unico in grado di pensare, e le mie idee erano le uniche degne di un uomo. Gli altri erano borghesi e reazionari e schiavi per me, non mi importava se lo fossero sul serio o se solo avevano un altro modo di essere uomini, un altro modo di avere idee degne di un uomo.
Quando ebbe finito, le domandai perché. Perché e perché ora, perché per quattro mesi invece non mi aveva detto niente di tutto questo, perché avevo sempre avuto l'impressione di parlarle e di fare mio quello che lei pensava, perché avevo avuto l'impressione di farmi distruggere e di ricostruirmi grazie alle sue parole ed ai suoi pensieri. Perché mi aveva parlato e sorriso, perché mi aveva permesso di parlarle e sorriderle, mi aveva permesso di amarla e portarla al mare a baciarla e toccarla. Perché, insomma. La risposta non fu importante. Aveva a che fare col suo amore e con il suo desiderio di non-vedere, più o meno. Ma adesso aveva capito. Ma adesso non ne poteva più.
Poi era arrivato Novembre, ed era arrivato il freddo, così, in un giorno solo; i milanesi si erano addormentati con la quasi-estate e si erano risvegliati col quasi-inverno, il quasi inverno che non era più autunno da molti anni ormai; per quanto mi riguardava poteva non essere mai esistito, l'autunno, poteva benissimo essere invenzione di qualche vecchietto, invenzione in dialetto milanese. E a Novembre ero dunque precipitato in tutte quelle cose terribili del tipo "lui è appena stato piantato da una ragazza e nulla ha più senso e anche le cose che lo rendevano massimamente felice, un tempo, anche quelle cose non hanno alcun significato...". In effetti lei mi aveva lasciato con la sensazione precisa di essere una nullità assoluta, come se nel momento in cui lei mi aveva detto "ma tu non sei nessuno", io sul serio mi fossi ridotto, mi fossi disgregato, devoluto in nulla assoluto, convinto che non sarei stato mai nient'altro, mai più. Confuso anche dalle cose di cui mi aveva accusato, tentavo di scindere il vero dal falso, tentavo di convertire le energie negative della mia disperazione in energie positive e tentavo di capire quello che dovevo fare per smettere di essere chiuso come un riccio chiuso, immobile, eccetera, eccetera.
Pensavo sarebbe andata avanti così per sempre, pensavo che sarei rimasto intrappolato in quella dimensione di nulla per il resto della mia vita e anche oltre; era un pensiero naturale, spontaneo, a cui non opponevo alcuna resistenza.
Invece semplicemente un giorno smisi di amarla, smisi di pensare a lei e al suo numero di telefono, convinto però che quello che lei aveva detto, quello che lei aveva rappresentato, sarebbe rimasto - questo sì, per sempre - in me, sarebbe diventato una nuova parte del mio essere.
A Dicembre ricominciai ad essere assorbito nuovamente al cento per cento dai fatti della scuola. Dai miei alunni, soprattutto, ma anche dalle cose di gran lunga meno interessanti; dovevo scrivere il programma, dovevo preoccuparmi dell'intesa formativa, del consiglio di classe e di tutte quelle cose che ritenevo profondamente e stupidamente inutili, ma nelle quali mi stavo impegnando anche per dimostrare a me stesso di non essere la caricatura del personaggio suggestivo, estremo e senza compromessi dipinta da Caterina.
Come ho detto, il mio modo di essere maestro era ben lontano dall'essere perfetto, ma anche lontano dall'essere accettabile da un'"istituzione scuola" come quella in cui mi trovavo a lavorare. Avevo scritto il programma di greco e latino, l'avevo copiato da quello che mi avevano consegnato un lontano giorno di quinta ginnasio, non c'era poi molto da cambiare. Non c'era nulla da cambiare, a dire la verità. Poi avevo scritto quello di storia e di geografia, ma non quello di italiano, non ancora, eppure lo aspettavano da tempo. E' che anche queste piccole cose, queste piccole cose mi nauseavano, non tanto per il loro valore in sé, quanto perché mi ricordavano di fare parte di un ingranaggio, di una macchina che andava avanti allo stesso, identico modo da tempo immemorabile. Non c'è nulla di sbagliato nel mettere per iscritto il programma scolastico, gli argomenti che si tratteranno, insomma, nulla di demoniaco, mi dicevo... eppure.
E puntuale come la morte in persona stava per raggiungermi anche il Gran Consiglio di Classe, con tutto il suo miasma di ipocrisia, con tutti i discorsi anodini, vuoti e retorici e offensivi riguardanti la classe, appunto. Con i colleghi che lamentavano disattenzione e fingevano di struggersi, di struggersi nel tentativo di trovare una soluzione, e fingevano di struggersi nel tentativo di scovare le cause del non-impegno, del non-studio. Oh-perbacco, bisognerà pure trovare una soluzione con questi ragazzi, e voi, voi genitori bisognerà pur che ci diate una mano a farli rigare dritto una volta per tutte, questi ragazzi, ché non si potrebbe sempre ricorrere ai metodi terroristici, per bontà non lo facciamo, per bontà, ma se dovesse occorrere... E i genitori che dal canto loro fingevano di trovarsi d'accordo, è-che-ci-hanno-tutto-questi-ragazzi-al-giorno-d'oggi... ma in realtà non aspettavano che la fine della manfrina per tornare alle loro occupazioni più o meno redditizie, le lavate di capo al massimo se le riservavano per il dopo-colloqui-personali, tornavano al lavoro sulla bmw o sulla punto o sulla opel di seconda mano, nella convinzione di aver perso due ore delle loro vite.
Nauseante, semplicemente nauseante.
Sergio Minghelli non sembrava dello stesso parere, o, quantomeno, non sembrava particolarmente turbato né schifato. Parlava con i colleghi, scambiava battute, beveva caffè. Beveva caffè anche con me alle volte, e in questi casi parlavamo delle sue e delle mie lezioni, soprattutto delle mie, direi, assodato che le sue non facevano altrettanto "scalpore". In effetti egli ispirava una sorta di comunicabilità naturale per me, per cui non avevo avuto alcuna difficoltà a ritenerlo "amico", e non "nemico" come gli altri. D'altronde, per quello che ne sapevo, il mio comportamento avrebbe potuto essere un errore: mai lui mi aveva fatto capire di essersi schierato dalla mia parte. Era semplicemente aperto e interessato e simpatico, trovavo naturale parlare con lui di cose serie o anche chiacchierare e basta; mi piaceva il modo che aveva di essere intellettuale e di saper ridere sinceramente anche col bidello. E poi sembrava l'unico lì dentro capace di mantenere una certa calma perenne, tra tutte quelle persone agitate in corsa, sempre in ritardo, sempre indaffarate, prese e preoccupate da mille cose meschine e senza senso. Dal canto suo, Minghelli mi aveva preso in simpatia, non si poteva ancora assicurare che fossimo diventati amici - perché un amico sta dalla tua parte, naturalmente, e poi un amico sa tutto di te, o quasi - si può dire però che eravamo conoscenti con una notevole affinità. Direi che il lato divertente, interessante, era proprio il fatto che in realtà conoscevamo ben poco l'uno dell'altro, poco... Affinità voleva dire, più che altro, frasi brevi completate dall'altro, voleva dire più che altro sguardi ironici o battutine sarcastiche verso il mondo che poco lasciavano scoperto delle nostre rispettive vite concrete, ecco, il nostro rapporto era cristallizzato in una dimensione astratta, anche i discorsi più profondi perduravano in quella dimensione divertente... emozionante, per quanto mi riguardava.
A Natale nevica neve grigia a Milano. Ci sono le settimane bianche in montagna con gli amici: quell'anno ci fu anche per me una settimana bianca con i miei amici. Gente che conoscevo, che mi conosceva da anni, persona a cui volevo bene da molto tempo: compagni di scuola, addirittura, alcuni, ex ragazze, addirittura, alcune. Cinque persone, i miei amici, in realtà, non di più, persone a cui ero legato saldamente come un pontone alle sue due ancore, con cui si scherzava, e si stava bene, che non mi comunicavano alcuna emozione nuova da tempo.
La montagna dei milanesi è a Bormio, anche la mia lo era. Era una vacanza divertente che mi vedeva quanto mai insofferente e a tratti apatico; di giorno sciavamo e di sera ciondolavo da una parte all'altra della casetta di Andrea, in cui eravamo ospiti; dal camino alla stanza da letto, sorsicchiavo una cioccolata e accennavo un sorriso spoglio di trasporto alle storie di Lodovica, che pure era l'anima della festa. Ero perseguitato dalla spiacevole sensazione di aver dimenticato qualcosa a casa, di dover assolutamente tornare indietro al più presto. Ma quel qualcosa assumeva un'importanza sempre più vitale man mano che i giorni passavano, il primo giorno erano gli occhiali da sole, il secondo era la giacca a vento impermeabile, il terzo era una parte della mia anima... dovevo tornare a casa e riprendermela.
Il monolocale non distante dalla darsena era lo stesso, anche dopo essere stato chiuso una settimana, io invece ero uno sconosciuto a me stesso, non mi riconoscevo perché stavo soffrendo per la lontananza di una persona estranea, era una situazione senza senso: ero ridotto ad una specie di relitto perché sentivo la mancanza di uno sguardo, di una voce, di un sorriso fatto-come-di-un'ironia-superiore. Soffrivo per la mancanza di un uomo che non era neanche mio amico, era solo un "conoscente con affinità".
Quando tornai a scuola - con un cappotto blu sgualcito lungo fino alle caviglie, quasi, con gli occhiali dalla montatura scura e un accenno di barba e i capelli ricci, come sempre - la mia nave stava già seguendo una rotta differente da quella segnata sulla carta, una rotta anomala, che mi portava in mari straordinariamente burrascosi  e pericolosi, una rotta che volevo percorrere in ogni sua tappa, di cui non mi sarei perso una singola curva; volevo solo lasciarmi trasportare dalle onde, gioire delle scosse, senza preoccuparmi di dove sarei approdato.
Sergio, indaffarato, mi salutò a stento.
Quello che può apparire come un "difetto di narrazione", la sensazione spiacevole che manchi qualcosa, che gli avvenimenti si siano rovesciati l'uno sull'altro senza respiro, o siano proceduti con lentezza esasperante... tutto questo è quello che vivevo in quel periodo della mia vita; ero rimasto un detrito di nulla nel fiume di Caterina per tempo immemorabile, mi sembrava. Invece erano state poche settimane in realtà... il nulla dilata il tempo e lo deforma senza pietà. L'amore invece è un aoristo, è un'azione puntuale, succede e basta, diamine, senza che nessuna parola riesca a stargli dietro, o a identificare il momento in cui il Nulla diventa Amore, senza che nessuna parola riesca poi a sostenere il ritmo della sua corsa frenetica...
Mi chiamava, mi cercava spesso. Aveva un fratello che si chiamava Livio che faceva il giornalista, il corrispondente da Madrid. In effetti, anche lui era per metà spagnolo, la mamma era nata nel barrio gotico, a Barcellona, in una di quelle vie strette che sono in parte Napoli e in parte violentemente Spagna.
Pranzavamo insieme alle volte, mi offriva passaggi in macchina. Non aveva figli e non era sposato, supponevo non lo fosse mai stato, viveva solo in via Tagliamento, a cinque numeri civici dalla sorella Rocìo, una vee-jay con i rasta, che predicava la formula love, peace & cannabis con giusto un trentennio di ritardo. Muy alternativa y stravagante.
Ognuna di queste piccole informazioni era per me un tesoro, ogni cosa che mi parlava di lui era da me coccolata con tenerezza infinita.
"Dovresti capire esattamente cosa non riesci a fare, qual è il problema con questi consigli di classe, con il programma, con tutte queste cose che - come dici - ti nauseano."
Cosa non riesco a fare? Cosa non riesco a fare? Non riesco a fare che tutte queste cose sono state create esclusivamente per camuffare l'ordinamento vertical-tirannico della scuola, per camuffare lo squallido processo di trasmissione-dati, la gerarchia per cui chi sta in alto e ha il culo coperto non se ne frega minimamente degli altri, ecco cosa non riesco a fare! Almeno un tempo l'insegnante tiranneggiava e terrorizzava e tutti lo sapevano; ora invece siamo tutti qui a compiacerci della gran bella democrazia all'interno della scuola. Ci compiacciamo perché ci sono i rappresentanti di classe, i rappresentanti degli studenti e i rappresentanti d'istituto e i consigli di classe... Storie! Il sistema vertical-tirannico al coperto è più forte di prima, ecco cosa non riesco a fare!
Quando ebbe finito di leggere queste parole nel mio sguardo, ad un semaforo rosso, rispose una risposta equilibrata. Rispose guardando alla questione da una prospettiva molto diversa dalla mia. Era un filosofo ed era un uomo razionale, più razionale di me forse. Il punto, diceva, è che io non sopportavo l'istituzione in quanto tale, perché l'istituzione regola e misura, e io non volevo né regola né misura. "Ma senza queste - continuava - l'uomo retrocede al livello animale, cessa di essere uomo...". Era sicuro, sicuro come può esserlo solo chi si apre alle idee altrui, accantona le proprie, le distrugge per un secondo e senza alcun pregiudizio analizza quelle degli altri, per poi decidere se giudicarle valide o meno. "Puoi insegnare senza programma anno dopo anno, seguire solo la tua passione per questo lavoro, concentrarti solo sul piacere che ti procura comunicare le cose che sai e regalarle agli altri, ma dovrai per forza, prima o poi, tornare alla percezione della realtà, della realtà umana, che è fatta anche di regola e misura... Arriverai sempre ad un punto in cui ti imbatterai nel non-consentito e allora dovrai decidere se essere uomo, credo...".
Questo era una difformità sostanziale. Avevo forse una percezione edonistica della vita? O come dovrei chiamare la convinzione che avevo... Giusto era inseguire la felicità, giusto era farsi portare dalla libido... era approdata a questo la discussione? Il non-consentito per me non esisteva.
In termini più pratici, lui non sarebbe mai stato d'accordo con la mia visione estrema dei fatti. E come avrebbe potuto esserlo, talvolta non lo ero nemmeno io. Era come se volessi esternare la mia rabbia contro "qualcosa" nella scuola che mi metteva a disagio, e non riuscendo ad identificare cosa fosse, esattamente, gettassi il mio sordo livore, il mio astio addosso a tutti, così, alla rinfusa, talvolta. Anche sulle cose positive che erano migliorate negli anni. Anche sugli sforzi di persone che a scuola e per la scuola vivevano sui loro sforzi di capire, forse. Il rancore, i risentimenti portano a dire "sono tutti cattivi". La rabbia ed il rancore sono giovani. A volte mi trovavo, io stesso disarmato dalla pochezza dei miei ventisei anni. Vivi, violentemente pronti a distruggere.
"Inoltre il disagio è educativo. Lo sai. Il disagio a scuola è educativo. Per i ragazzi, per noi. Il disagio, la sofferenza, non sono sempre da sfuggire. A volte sono indispensabili per evolversi".
"Il dolore non va accettato mai. Non nasconderti dietro a falsi alibi. Restare impantanati nel dolore è deleterio. Non bisogna rimanerci dentro rassegnati e intrappolati. Sarebbe la fine."
Cambiò marcia e diede un'occhiata rapida allo specchietto retrovisore della macchina bordeaux, mi rivolse un nano-secondo di sorriso e si fermò a un semaforo giallo col quale io sarei passato.
Ero un pazzo. Non sarei voluto scendere mai. Che tutti i semafori si tingessero di rosso e il traffico della città indaffarata si riversasse tutto nella nostra strada, come un fiume in piena rompe gli argini e si riversa nei campi. Del resto, la conversazione languiva. La non-comprensione che avevo letto nei suoi occhi mi riempiva di tristezza.
Viale Col di Lana scorreva velocemente, invece; un solicello pallido di fine gennaio, freddo, aveva diradato un po' le nebbie perenni. Avevo abbassato il vetro del finestrino e subito un tubo di scappamento mi aveva vomitato in faccia il suo fumo nero. Il rumore di un motorino truccato. Rialzai il finestrino che mi separava dall'inferno. Guardavo il volto di Sergio Minghelli di profilo, più limpido, più bello dei laghi di montagna in cui si specchia il cielo.
Pensavo a come avrei voluto conquistare un'intimità che mi sembrava, del resto, impossibile.
O-mo-ses-su-a-le. Non lo ero mai stato. mi ero innamorato di una persona senza parlare al suo sesso, e mi sembrava la cosa più umana del mondo, non ero un animale, dopotutto, non ero un animale, avevo un'anima oltre ad un corpo... La mia anima si era innamorata, poi si era innamorato il corpo, e mi sembrava perfettamente naturale amare quella persona nella sua totalità, mai avrei pensato "se fosse una donna", era tutto perfetto così com'era: i capelli corti quasi neri, la camicia azzurra e la giacca sotto il montone e la mano appoggiata sul cambio. I lineamenti delicati, il viso ben rasato, la carnagione chiara ma non bianca, gli occhiali dalla montatura leggera che portava solo per guidare, gli occhi verde scuro lievemente rivolti all'ingiù, resi profondi anche da qualche ruga. Quarantasei anni. Le mani erano mani da pianista, le dita affusolate, eppure dotate di una robustezza che testimoniava lavori pratici. Mani che avevano lavorati non soltanto in penna stilografica... Poi ero arrivato. A casa.
Febbraio si fermò ad un certo punto. Era scorso veloce, e prese a scorrere lento.
Veloce nell'amore che si nutre di se stesso, che non ha bisogno di scambio né di parole. Veloce nella felicità impalpabile che parla di suoni, secondi, immagini, sguardi. Veloce era l'amore che mi faceva pensare che, sebbene non avrei mai condiviso tutto questo, che era il mondo, con lui, avrei continuato ad amarlo di quell'amore semplice e  acerbo, di quell'amore narciso e solo.
Lento nella realtà lenta, l'amore aveva cessato di essere un maglione blu, una risata a un corriere disordinato. Era diventato un bambino prepotente, o forse neanche, era diventato un'entità che mi possedeva e mi faceva male e si allargava; vivevo per stare accanto a lui un'ora forse? La terza ora del Mercoledì, quando eravamo liberi entrambi? Vivevo per quei momenti? La terza ora è stata. Verrà una terza ora Mercoledì, essa sarà attesa, sarà anticipata con un sorriso in un corridoio affollato, forse, si consumerà tra brividi di freddo e pensieri inarticolati, poi essa sarà stata, e avrà lasciato dietro di sé detriti di una realtà troppo vuota per essere vissuta. E' così che mi sentivo: vuoto; piombato, forse ripiombato, nella realtà vuota, libera da amore, libera da sconvolgimenti vivi. E' così che mi sentivo: vivo, in un mondo di morti, in un mondo formato da intrecci già fatti, già decisi per tutti, come quelli dei cestini di vimini ecco, io mi sentivo forse vivo, e da vivo vivevo la mia personale tragedia. Giorno dopo giorno vivevo la mia tragedia, tremenda, penosa, diversa. Sola.
Sergio e io eravamo diventati amici, adesso ci conoscevamo bene, ci eravamo conosciuti bene in poco tempo, quando avevo smesso di parlare di libri e di film e di scuola e avevamo cominciato a parlare di noi stessi con una strana veemenza. E' strano che un uomo parli di sé con facilità. Ci frequentavamo, anche. Al di fuori dell'ambito scolastico: conoscevo il suo numero di telefono e lui conosceva il mio. Mi aveva imprestato un numero infinito di oggetti, libri e film, così io avevo fatto con lui: un corso di inglese della De Agostini, con tutte le audio cassette. John Smith is walking down the streets of London. London is a crowded city.
Londra è una città decisamente affollata, ma il punto è che avrei voluto godere solo di un'espressione del suo viso seduto al volante della punto bordeaux, come un tempo. Avrei voluto non sentirmi triste ogni volta, invece.
Marzo era arrivato con il sole e il cielo azzurro, troppo caldo per essere Marzo. Troppo caldo, troppo azzurro, aveva illuminato un po' i muri gialli del Rebora, la cui struttura ricordava a volte un penitenziario d'inizio secolo.
Al Palazzetto reale c'era la mostra di Giovan Battista Tiepolo. Erano gli ultimi giorni, dopodiché se ne sarebbe tornato a Venezia, il Tiepolo, a Cà Grande, a Cà Rezzonica forse. La quantità di persone interessate all'arte è sempre drammaticamente alta in queste circostanze: la fiumana degli uomini, delle donne, delle scolaresche che aspettavano con noi all'ingresso si agitava e sbuffava. Sergio impaziente mostrava quell'entusiasmo che sempre ritrovava di fronte ad un nuovo libro, ad un nuovo film, ad un nuovo spettacolo teatrale. La cultura lo riempiva di gioia per il suo valore in sé, non per il riconoscimento che avrebbe potuto trarne agli occhi di qualcuno. A quarantasei anni possedeva una fetta consistente dello scibile, ed era sicuramente la persona più colta della scuola, ma lui non sembrava curarsene, abiurava il ruolo di intellettuale, andava per la sua strada in questo modo limpido, di volta in volta c'era soltanto questo nuovo libro, film, spettacolo teatrale.
In quel momento c'era il Settecento Veneziano; in coda davanti al museo mi parlava dell'uso di colori chiari e trasparenti, permeati di luce... Entrammo e cominciò a trascinarmi da una sala all'altra, allegro e ispirato e carismatico, anche. Capace di coinvolgermi e di farmi provare quello che anche lui provava contemplando l'azzurro di una tela dipinta trecento anni prima. Parlando e gesticolando a volte - doveva essere bravo in classe. Come dubitarne del resto?
Quando eravamo ormai stati in ogni sala, e avevamo guardato ogni quadro, commentato ogni soggetto, quando io mi ero seduto su ogni sedia - esausto - mentre lui trotterellava ancora da una parte all'altra trascinandomi come un Don Chisciotte il suo Sancho Panza, uscimmo ed era già buio, un manto di umidità ci investì ai piedi del duomo rosa, con le sue guglie che si specchiavano sulla piazza gremita di lavoratori, di venditori, di mendichi, di giapponesi. Con la madonna d'oro in alto che non vedevamo perché troppo vicini.
Il mio cuore prese a battere rovinosamente veloce, quando gli occhi di Sergio si erano fermati su di me vicino ai miei. Respirai una volta a pieni polmoni e la testa parve alleggerirsi, sicché, con la testa alleggerita proposi due, tre, quattro passi, perché-no.
Attraversammo la piazza senza fretta; la vita della nostra città ci passava accanto, frenetica. Parlavamo nel rumore dei passanti, delle motorette dei netturbini, della musica degli artisti da strada, ma sembrava fosse la terra stessa a liberare vibrazioni sonore indefinite, neanche sotto l'asfalto un esercito di gnomi marciasse a ritmo irregolare. Neanche un fiume di magma rovente si agitasse sotto i nostri piedi. Ridevamo nella luce dei lampioni, delle insegne, ma sembrava fosse il cielo stesso ad emanare luminosità alogena.
In via Mercanti ascoltai l'eco della sua voce da una colonna all'altra, lui ascoltò l'eco della mia; la nostra intesa quella sera non poteva essere più perfetta e limpida, mi sentivo come mi ero sentita una volta tra i banchi di una scuola media, con una ragazzina bionda di fianco. Nessun silenzio era d'imbarazzo, nessuna risata di circostanza, nessuna parola non era spontanea, non un filtro tra la sua e la mia mente.
Piazza Cordusio, piazza Edison, dove andavamo non aveva alcuna importanza, neanche le vedevo le strade e le piazze.
Poi ci trovammo in quel turbinio di viette antiche con case antiche, e la folla e la ressa l'avevamo lasciata laggiù nelle luci al neon, nel rumore proveniente-dalla-terra-stessa.
Stavamo ora nel silenzio a pochi metri dal rumore, ancora avevamo nelle orecchie l'eco della gente, delle nostre risate istigate dalla terra del duomo che rideva e sbraitava... Silenzio.
Poi venne la luna, e vennero due stelle chiamate dalla luna; i marciapiedi alle volte erano ingombrati dalle macchine e si faceva gran fatica a passare - le nostre spalle dovevano incontrarsi e mentre le nostre spalle si incontravano tutto il mio essere non era che spalla, e la mia anima spalla diventava, mentre in ogni atomo ero teso verso di lui e squassato dal contatto con lui.
Allora non avrei saputo parlare, perché malato d'afasia, e non avrei spato guardare, perché i miei occhi non vedevano che tenebre... I sensi erano bui quando ci sfioravamo, il mio equilibrio distrutto in pochi istanti: gli occhi si accecavano e rimanevano nel buio per lunghi secondi; come accade quando si guarda il sole ed esso ci punisce per l'impudenza.
Camminavamo in silenzio, ora, per non disturbare la luna e le due stelle e il buio; camminavamo piano, ora, per non tornare nella luce. Silenzio. Una moto arrivò veloce e rumorosa, mal guidata. Attraversammo la strada in quel momento - forse avrei potuto farmi male, perfino morire, non so - fu un passaggio breve, Sergio mi tirò verso di sé per un braccio e la moro era già passata, tornato il silenzio. Avevo coscienza di me unicamente dal battito delle arterie che mi pareva di sentir straripare come una musica assordante, a invadere la strada. Sentivo le sue arterie? Immobili - ancora stringeva il mio braccio. Vicini - troppo vicini per morire. Quella era sera di vita. Nel buio, nel silenzio, nei nostri cuori vicini.
Corso Genova invece è una via larga, la risalimmo a grandi passi, ricominciarono a esserci parole in mezzo fra me e lui. Parlavamo della fatalità, del destino.
E quando vidi il Naviglio mi stupii sinceramente di vederlo così uguale all'ultima volta, verde e sporco né più né meno di quella mattina. Attraversammo il piccolo ponte sull'acqua verde, la strada era vuota, saranno state le nove. Camminavamo lungo la Ripa di Porta Ticinese, in Piazza XXIV Maggio ancora insegne, ancora luci e rumori, tornammo su imboccando Viale G. D'Annunzio, in una traversa c'era il mio monolocale.
Sulle scale sentivamo odore di cucina filippina, una sorta di tanfo di fritto proveniva dalla casa dei miei vicini. Aprii la porta con le due chiavi e Sergio entrò nella mia casa ordinata - abbastanza ordinato era l'ingresso. Era vecchia, con il soffitto alto, poco luminosa, arredata con mobili di fortuna, trovati per caso nelle cantine di amici e parenti, oppure comprati all'Ikea; un'accozzaglia di stili, oggetti di valore diversissimo si trovavano vicini, lampade futuristiche dall'intensità regolabile e scrittoio dei nonni, la libreria bianca che era sempre stata nella mia stanza, a casa dei miei, e il lettore cd appena acquistato. Era un ambiente accogliente, però, che non metteva in soggezione; era pulito, ordinato nei limiti della decenza, le pigne di libri e di dischi che salivano dal pavimento avevano quasi funzione decorativa. Qualche camicia stropicciata negli angoli decorava molto meno, nel complesso però non si stava male, avevo tutte le cose con cui ero cresciuto e anche altre, ed era ben riscaldata.
"Ti offro qualcosa" affermai automaticamente tirando verso di me l'anta del frigo vuoto. Più che luce gialla il frigorifero però non proponeva, mi resi conto... due uova, mezzo vasetto di senape, una cotoletta vecchia di quattro giorni che non avrei raccomandato nemmeno al mio peggior nemico. "No, ti ringrazio, non ho fame - sì, sicuro, certo". Il suo sguardo vagava piuttosto tra i miei oggetti, dai soprammobili kitsch (un piccolo vaso "pompeiano" di dubbio gusto...) si era spostato ai libri, aveva scorso quelli del liceo e dell'università - dal Capaldi a tutti i vari Del Corno - quindi aveva raggiunto i romanzi: i russi, Tolstoj e Dostoevskj, Bulgakov e poi Oscar Wilde, Shakespeare e Joyce, i classici sterminati, da Omero a Plauto a Catullo, Conrad e Poe... aveva superato Eco e tutto il resto, si era fermato ad un libricino assurdamente posizionato vicino ai Promessi Sposi. Prese il Profeta di Kahil Gibran, le pagine scorsero velocemente tra le sue mani, liberando la polvere di anni. "Non l'avrei detto". "Non avresti detto cosa?". "Che tu fossi tipo... da questo libro. E' uno dei miei preferiti, sai". "Ah, grazie! Grazie mille! Sicuro! Sono troppo tonto per certi testi... non è colpa mia", risi sfogliando Il Profeta, perplesso. "Volevo dire... volevo dire che non è il tuo genere, semplicemente". "L'ho letto in prima liceo, non lo ricordo bene, mi era piaciuto però". "Rileggilo. Leggiamo adesso". Accesi la luce da lettura sopra al divanetto. Gli consegnai il libro. "Leggilo tu. Ad alta voce". Ci sedemmo sul divanetto nella pace assoluta e perfetta che si trova solo a casa. Anche Sergio sembrava a suo agio. Cominciò.
"Almustafà, l'eletto e l'amato, come un'alba verso il suo giorno, aveva atteso dodici anni nella città di Orfalese il ritorno della nave che doveva riportarlo all'isola nativa."
La voce non era certo fievole, ma nemmeno stentorea; profonda, sicura e rassicurante, dolce come una fiaba udita da bambino, riportava ad una serenità perduta nella notte dei tempi. Cullava, spingeva dolcemente la mia fronte a distendersi, le mie labbra al sorriso. Una pausa breve alla virgola, una lunga al punto, non un'incertezza, non un piccolo errore, niente scatti né colpi di tosse, un fiume placido, una bassa marea.
"... E dal santuario uscì una donna di nome Almitra. Ed era un'indovina. E lui la fissò con estrema tenerezza perché per prima lo aveva cercato, e aveva creduto in lui dal giorno del suo arrivo nella città. E lei lo salutò dicendo: 'Prima di lasciarci noi ti chiediamo, parlaci e dona a noi la tua verità. Noi la doneremo ai nostri figli, questi ai loro figli, ed essa non perirà'.".
Nessun evento e nessun pensiero avrebbe mai potuto spezzare l'incantesimo nel quale eravamo cristallizzati da quando le onde sonore della sua voce avevano cominciato a fluttuare nell'aria per renderla limpida, leggera, finalmente respirabile... Forse la felicità si può solo respirare, forse viaggia solo nell'aria e per questo è velleitario ogni tentativo di acciuffarla, stringerla nelle mani. E forse per questo l'uomo è condannato a riconoscerla e a non poterla trattenere.
In chimica, ricorda Goethe, si chiamano affini le sostanze che, incontrandosi, subito si compenetrano e si influenzano reciprocamente, si associano col massimo del vigore, modificandosi e formando insieme un nuovo corpo.
"Allora Almitra disse: 'Parlaci dell'Amore.' E lui sollevò la testa e scrutò il popolo, e su di esso calò una grande quiete. E con voce ferma disse: 'Quando l'amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese. E quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume, vi può ferire. E quando vi parla, abbiate fede in lui. Anche se la sua voce può distruggere i vostri sogni come il vento del Nord che devasta il giardino... Se per paura cercherete nell'amore unicamente la pace e il piacere, Allora meglio sarà per voi coprire la vostra nudità e uscire dall'aia dell'amore, Nel mondo delle stagioni, dove riderete, ma non tutto il vostro riso, e piangerete, ma non tutte le vostre lacrime'."
La voce vellutata e bassa continuava con la solita dolcezza, portando con sé reminiscenze di un'anima già conosciuta, da sempre.
"L'amore non dà nulla fuorché se stesso e non attinge che da se stesso. L'amore non possiede né vorrebbe essere posseduto; poiché l'amore basta all'amore".
Pleonastico.
"L'amore non vuole che consumarsi. Ma se amate e se è inevitabile che abbiate desideri, siano questi i vostri desideri: sciogliersi, e imitare lo scorrere del ruscello che canta il suo motivo alla notte...".
Sedevamo l'uno accanto all'altro con garbo, con discrezione, senza toccarci. La voce di Sergio, sicura, si era fatta ora un sussurro, un adagio. Il mio cuore nel silenzio si rovesciava nel petto come una valanga giù da una montagna, inarrestabile e rovinosa, senza speranza di essere controllata dall'uomo né dalla natura. La sentivo anzi rinvigorirsi dentro di me secondo dopo secondo, ne ero alla mercé assoluta e per questo la lasciavo aggirarsi, rassegnato: "Sei a scuola domani-- ", sbottai ad un certo punto quasi senza accorgermene; a volte siamo portati a difenderci da troppa gioia, a volte siamo sciocchi e non sappiamo gestire la felicità effimera, diciamo cose che non vorremmo dire, che non nascono da noi ma da qualcuno che non ci consente di abbandonarci alla serenità semplice. Che non consente ai nostri cuori di aprirsi... Sergio guardò l'ora proiettata sul muro dalla mia sveglia, l'incantesimo si sciolse e la voce non veniva più dall'anima. Non ci furono molte parole, la gioia riempiva l'aria in modo troppo palpabile, Sergio telefonò per chiamare il taxi dal suo motorola grande e con l'antenna estraibile, ancora, la pace rimaneva, però, mentre non dicevamo nulla.
Mentre scendeva le scale ed era già sul taxi, probabilmente, io andavo in giro qua e là, dal letto al bagno, dai fornelli allo scrittoio: il più inquieto, il più infelice dei mortali.

Non oso chiederti un bacio,
non oso mendicare un sorriso,
per timore che, ottenendo l'uno
e l'altro, io possa diventar
superbo. No, no! Il mio desiderio
più audace sarà soltanto di
baciare quell'aria che poco fa
ti ha baciata

[Robert Herrick]

Il sonno mi colse la mattina, tra le pagine del Profeta.
Ma la mattina c'era la seconda ora, la terza, la quarta, la quinta - greco, latino, geografia, italiano. E come mi vidi anch'io ispirato e carismatico quella mattina, come mi vidi motivato e contagioso! E avrei voluto far felici tutti, perché la mia felicità sembrava senza limiti, avrei voluto regalare otto a tutti, avrei soprattutto voluto dire loro che l'amore non dà nulla fuorché se stesso e non attinge che da se stesso, avrei voluto dire che l'amore è conoscere la pena di troppa tenerezza, sanguinare condiscendenti e gioiosi. Destarsi all'alba con cuore alato e rendere grazie per un altro giorno d'amore; addormentarsi con una preghiera in cuore per l'amato e un canto di lode sulle labbra.
Ci abbracciavamo piano, non si sarebbe potuto dire chi si fosse mosso verso l'altro per primo, usciti da scuola e rimasti soli, di nuovo davanti al mio frigo vuoto. Ci abbracciavamo piano per provare poco alla volta la scossa che altrimenti ci avrebbe ucciso senza dubbio, scaraventandoci in un angolo della stanza, polvere insieme alla polvere da spazzare via, senza dubbio. Perché era già passione leggere un libro vicini, era già passione anche solo respirare la stessa aria, guardare lo stesso cielo. Passione violenta, riprovevole, se si vuole, sicuramente non più morigerata di quella di una Madame Bovary nel letto dei suoi amanti. Respirare la stessa aria, guardare lo stesso cielo, sfiorare le punta delle dita passandogli Il Profeta. E' inutile che mi soffermi sul sapore assolutamente nuovo ed etereo di quell'incontro di corpi e di anime affini. Che compito ingrato sarebbe dover descrivere con parole umane la vastità dell'Infinito. La ricchezza dell'anima trabocca a volte nelle metafore più vuote, e risulta difficile scorgere la diversità dei sentimenti sotto l'identità delle espressioni, si rischia di scivolare nell'eterna monotonia della passione che non cambia mai forma né linguaggio...
"Ti amo" - "Ti amo" risposi. Apodittico.
Aprile era caldo, era leggero, era in movimento ed era perfetto. Dell'amore in fondo non c'è niente da dire, è una cosa ineffabile. Il suo nome la mia musica, il suo sorriso la mia salvezza, il suo bacio il mio cielo e le mie stelle. Ogni gesto, ogni parola, ogni carezza era investita del suo valore più alto, poiché amore a vuoto è peccato mortale, e regalarsi a qualcuno un delitto; niente era vuoto o frettoloso o scontato o già provato, tutto riposto semplicemente nelle mani mie e sue, senza alcun copione. Vivevamo quello che avevamo scoperto noi stessi. Naturale... eppure era la prima volta che mi accadeva... con una ragazza non era mai successo, qualsiasi storia non era mai iniziata da zero, aveva sempre portato con sé le reminiscenze di cose già fatte o frasi già dette, di cose che era ovvio si facessero e frasi che ci si aspettava già. E proprio per questo - sebbene fossero state a volte ricche di significato e fortemente sentite - mai avevano regalato emozioni così forti da non poter essere descritte. Sergio diceva che il dualismo uomo-donna è invalicabile, che un uomo e una donna non si comprenderanno mai a fondo come due persone dello stesso sesso, è inevitabile, diceva, ci sarà sempre tra loro una sorta di battaglia in corso, una sorta di gioco in cui anche nei momenti di massima intesa si sta - anche se, sembra, impercettibilmente - sulla difensiva. Non so. Non ha senso parlarne in questi termini, credo. Che importa in fondo. Non esisteva niente di tutto questo nel nostro mondo. Non esistevano che amore e bellezza, anzi, pareva che la bellezza non fosse mai esistita, prima, pareva che la natura e il mondo avessero cominciato ad essere belli solo dopo l'appagamento dei nostri desideri. D'altro canto non avevo spazio mentale per qualcosa che non fosse splendido e meraviglioso.
Stavamo sempre insieme e non finivamo mai di trovarci e di scoprirci, ogni tanto chiudevamo le porte e le finestre per non far volare via le nostre emozioni intense, allora non esistevano più i singoli sguardi, né esistevano le nostre dita che si stringevano a farsi male, e le labbra premute sulle labbra, sul collo e sul petto, tutto era compreso in un unico contatto; quando ogni centimetro della propria pelle strilla "ti amo" non esistono più camicie che scivolano via veloci e profumate. "Ti amo" - "Ti amo". E per noi, tutte queste cose, quando succedevano, facevano parte di un unico, grande avvenimento. E' un incontro d'anime.
Ma sono velleitari i tentativi di trattenere la felicità nelle mani, spesso qualcosa di sgarbatamente reale si intromette troppo presto nella dimensione leggera in cui sono sospese le anime felici, a turbare l'inquietudine di gioia con quella di disperazione.
La malattia di Sergio era appunto tremendamente reale e immodificabile, prima tutto era dipeso da noi - adesso nulla più lo faceva. Un giorno entrò nella sua e nella mia vita come un'avaria improvvisa al motore. La bella voce di Sergio mi parlò fievole e a scatti, così diversa dalla sera del Profeta. Ho-scoperto-ho-l'aidiesse, vomitò tutto d'un fiato una bella giornata d'inizio Maggio.
Siamo così miseramente attaccati alla nostra vita terrena, così miseramente, squallidamente, meschinamente legati e impediti dal desiderio-istinto di continuare a vivere. L'istinto è ignobile e meschino, perché ci costringe all'incoerenza, ci costringe a voltare le spalle a tutto quello che ci ha portato in alto e ci ha reso uomini.
Così l'istinto mi fece dimenticate che la mia vita non era che Sergio, con chissà quali procedimenti e discorsi capziosi mi illuse del fatto che la mia vita fosse invece alzarmi tutte le mattine, respirare, sentire il cuore battere, mangiare, camminare. E gridavo sei un ignobile, un bastardo, tu-lo-sapevi. Tu hai fatto l'amore con chissà chi mentre io ti amavo e sono malato anch'io adesso e mi hai distrutto la vita. Lui non sapeva nulla, naturalmente, e non aveva fatto l'amore con nessuno mentre io l'amavo ed era stato siero-positivo chissà quanto tempo senza mai saperlo, ma non aveva la forza di muovere un muscolo né di rispondere, era molto più sconvolto di me, e io almeno potevo sfogare la mia disperazione prendendomela con qualcuno. Con lui, con la mia stessa vita. Non aveva la forza di parlare né di muoversi, quindi, e paradossalmente sentivo su di me quanto soffrisse, sentivo su di me quanto non aveva nessuna colpa, distrutto e vuoto com'era, ormai, senza il mio amore. Sentivo e sapevo tutto questo con precisione perché non era altro che quello che provavo io, distrutto e vuoto senza più il suo amore. Eppure non smisi di odiarlo e di urlare mentre con immenso sforzo si alzava e tirava la porta verso di sé, la oltrepassava e la richiudeva alle sue spalle. Eppure non smisi di provare rabbia anche per essere stato abbandonato dopo essere stato distrutto - proprio da lui, dal mio punto di vista - "Crepa" gridai alla porta con tutte le mie forze, con la testa che pulsava e il rombo nelle orecchie.
E sulla nota di questa cacofonia stridente e fasulla, si separarono le nostre strade su questa Terra, così, in modo semplice ed assurdo. In modo per cui è più semplice incolpare il destino, il fato, il volere degli dèi.


Quando all'obitorio Ti rividi sdraiato e freddo accanto a tua sorella che piangeva, ero sicuro ormai della mia stupidissima, fottutissima vita, sicuro che avrei maledettamente camminato, mangiato, respirato ancora, sicuro di non avere "sangue infetto", in due parole. Sicuro che non avrei mai più gioito, amato, vissuto ancora, sicuro che senza di Te non sarei vissuto, mai più, per nessuna ragione al mondo. Sicuro che avrei continuato ad invocare il tuo nome nel vuoto della mia mente, sopra ad un tram un martedì dal cielo azzurro. Sicuro che sarei andato alla deriva, alla deriva per sempre.
Come un rifiuto spaziale tra le stelle dell'Infinito.

"Tutt'a un tratto ci innamorammo, pazzamente, goffamente, spudoratamente, tormentosamente; e senza speranza, dovrei aggiungere, perché l'unico modo di placare quella mutua frenesia di possesso sarebbe stato assorbire, assimilare sino all'ultima particella lo spirito e la carne dell'altro."

Vladimir Nabokov