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27 marzo 2003

MENSILE D'INFORMAZIONE E LIBERO DIBATTITO

direttore Federico Longobardi

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Quale pacifismo?

di Federico Longobardi

Non mi considero un accanito pacifista: ho sostenuto la necessità dell'intervento armato in Kosovo e, solo un diciotto mesi fa, la liceità della guerra al terrorismo condotta contro le basi di Al-Qaeda in Afghanistan. Il pacifismo radicale, quello di chi vuole una pace senza "se" e senza "ma", mi pare certo legittimo, probabilmente nobile, ma politicamente improponibile. Non intendo con questo suggerire uno scollamento fra etica e politica, fra morale e potere: in uno stato moderno queste non possono che fondersi; la mia idea è che, però, nelle dinamiche politiche non si possa prescindere dall'analisi della realtà fattuale, dalla capacità di discernere il caso specifico dall'idea universale.

È magnifico pensare ad una pace perpetua, che ci donerebbe il paradiso in terra. Purtroppo è un'inutile utopia, un dolce sogno vagheggiato dai filosofi: il pacifismo radicale propone una generica avversione alla violenza, quello cosiddetto imperialistico la basa su un temporaneo dominio quantunque esteso, quello empirico-giuridico la fonda su di un accordo, anch'esso contingente, tra i vari governi; diverse soluzioni, ma che, da sole, non valgono ad eliminare del tutto le cause delle guerre.

È invece ad un pacifismo giuridico che credo gli stati si dovrebbero richiamare, un pacifismo che subordini senza remore l'ideale della pace a quello della giustizia e riconosca nella pace non tanto una spinta morale, quanto invece una necessità razionale.

Favorevole dunque ad una guerra al Iraq? Assolutamente no.

È una guerra sbagliata, non in quanto guerra, ma perché non porterà nulla di quello che si spera. Non ha senso che una coalizione attacchi, con decisione unilaterale, uno stato sovrano: crea un precedente pericolosissimo, che legittimerà altri interventi simili.

Non è utile invadere uno stato come l'Iraq, in un'area tanto instabile come quella mediorientale: si spronano migliaia di aspiranti terroristi ad entrare in azione. Non è improbabile che, dopo la caduta del regime irakeno, nelle masse popolari oppresse dai vari regimi mondiali ci sarà qualche forma di fermento, un desiderio di nuova libertà. Ma, a questo punto, come non vedere che la risposta di tali dittature non sarà altro che un ulteriore restringimento degli spazi di libertà nei loro paesi?

Lascia poi perplessi, per non dire sconcertati, la fretta che gli Usa mostrano, fin dall'inizio, di attaccare: Saddam è un pericolo, risponderebbe Bush, da eliminare al più presto. E mi sta bene ammettere che un dittatore violento al comando di decine di missili a media gittata non lascia tranquillo nemmeno me. Ma, dal momento che ormai ne ha smantellata una gran parte e sembra intenzionato a far concludere al più presto l'opera, dove sta il pericolo? Ecco che, in questo caso, si tira fuori dal cappello la baggianata di Al-Qaeda: Hussein sostiene i gruppi terroristici di Osama Bin Laden e, quindi, è indirettamente pericoloso. Ma dove sono le testimonianze di questa associazione a delinquere? Almeno le dichiarazioni televisive di Bin Laden erano pubbliche, e soprattutto attendibili; su questo punto, invece, rimane il mistero. Forse c'è un dossier dei servizi segreti britannici, qualche rapporto della Cia: francamente, non mi paiono testimoni attendibili, quanto meno perché direttamente coinvolti nella vicenda.

Allora il tono si fa ancora più patetico: l'intervento vuole salvare gli irakeni dall'oppressione del regime. Gesto nobilissimo, ma non ammesso dalla giurisprudenza internazionale. Anche a me, e altri milioni di cittadini europei, piacerebbe vedere un Iraq libero, democratico, avviato verso la modernità, capace di apportare il suo contributo al benessere del pianeta. Ma non è forse contraddittorio pensare di portare libertà, giustizia, equità e progresso con la guerra, eterna nemica del progresso stesso? Un conto è sbarrare la strada alla violenza opponendole un'altra guerra, un altro è attaccare per imporre dall'alto un modo di concepire le relazioni sociali e politiche.

E poi non sono ancora chiuse le strade alternative al conflitto: si potrebbe dare tempo agli ispettori, così da consentire loro di trovare le prove contro Saddam, la famosa smoking gun. Si potrebbe puntare sulla soluzione dell'esilio: lo stesso dittatore l'ha rifiutata, ma perché non la si è elaborata in maniera adeguata, con sufficiente impegno e fiducia da parte del mondo occidentale: una nuova proposta, più vantaggiosa per Saddam, gli farebbe forse cambiare idea.

Si potrebbero inviare contingenti dell'Onu in Iraq, a monitorare la situazione del paese, per evitare quegli abusi di regime di cui dice Bush. E, allo stesso tempo, li si potrebbero incaricare di portare aiuti concreti alla popolazione, aiuti che facciano percepire la vicinanza dell'Europa alle sorti della gente comune. È chiaro ai più che il regime di Hussein si regge sul consenso oltre che sulla violenza: smantellare con la solidarietà tale consenso aiuterebbe a smantellare il regime stesso che, forse, finirebbe per crollare da solo, ormai privo di adeguate fondamenta.

Il condizionale è d'obbligo: siamo nell'ambito della riflessione sulle ipotesi, non certo sulle possibili alternative. Quando sto scrivendo, al tavolo della politica internazionale siedono tengono banco gli Usa, con in mano l'unica carta giocabile. Gli altri o se ne sono andati o si sono nascosti sotto il tavolo o, peggio ancora, le sorridono accondiscendenti, incantati di fronte alla sua opulenza, colmi di speranze di ottenere qualche benefit nel periodo post-bellico.

Il timer continua a ticchettare: chissà che qualcuno non riesca a fermarlo in tempo, prevenendo un attacco che potrebbe diventare pericoloso per il mondo intero. Rimane la speranza in un repentino cambio di rotta; e sopravvive, soprattutto, la confortante certezza che noi, giovani amanti della pace, sapremo costruire, negli anni a venire, un nuovo modo di gestire il potere, finalmente basato su una legge razionale e non più sulla ferina violenza.

 

 

 

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