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13 dicembre 2002

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Colombia: c'era una volta il traffico d'armi

di Alessandra Fiorencis

6 marzo 2002: una data importante per la storia del narcotraffico in America Latina. Nel giorno in cui il Congresso degli Stati Uniti chiede in maniera compatta a George Bush di aiutare la Colombia “a difendersi dalle minacce delle organizzazioni terroriste”, il Segretario di Stato Colin Powell annuncia “aggiustamenti di rotta della politica statunitense, per andare più in là della lotta antidroga”. In altre parole, per lasciarla da parte. Nello stesso modo con cui nel 1984 si sostenne che i guerriglieri fossero “narcoguerriglieri”, adesso si decide di usare apertamente contro i “terroristi” ogni risorsa militare destinata in questi anni alla lotta alla droga (basi militari, battaglioni anti-narcotici e gli apparati di spionaggio).

Per i popoli latinoamericani, e quello colombiano in particolare, cambia poco. Come per anni ha ripetuto, tra l’incredulità e la disattenzione generale, un ristretto manipolo di giornalisti e attivisti politici, la “lotta alla droga”era solo la maschera di una politica di interventismo e di dominio statunitense su vaste aree del mondo, a cominciare dall’America Latina e in particolare in Colombia. E anche per questo è clamorosamente fallita.

Lo stesso Dipartimento di Stato USA il 7 marzo ha denunciato un aumento del 25% delle piantagioni di coca in Colombia nel solo 2001. L’aumento è in linea con il trend del quinquennio 1994-1998, quando, nonostante l’annuncio dell’imminente scomparsa del commercio della coca, la produzione è aumentata del 140%. Che la cosiddetta “lotta alla droga” servisse a lottare veramente contro il narcotraffico, potevano crederlo solo gli ingenui. Dopo il 6 marzo, neppure quelli.

A questo punto sorge un dubbio: il massiccio intervento statunitense nella regione andina è veramente finalizzato alla difesa del sistema democratico colombiano? O la guerriglia colombiana rappresenta a conti fatti una “minaccia conveniente”? Che le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) siano malviste a Washington è ovvio. Non solo perché, secondo le fonti del Dipartimento USA, hanno ucciso una decina di cittadini statunitensi, ma anche perché rappresentano l’ultima guerriglia di un certo peso attiva in un paese apparentemente pacificato. Quella delle FARC è una guerriglia quasi impossibile da distruggere, ma incapace di erodere il sistema avversario al suo interno e di collegarsi con i movimenti sociali esistenti nel paese, non a caso più in sintonia con l’ELN (Ejército de Liberación Nacional). Pericoli reali per il sistema colombiano, quindi, non ce ne sono. La combinazione tra le forze armate, sempre meglio armate con la tecnologia bellica USA, e l’esercito paramilitare delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) ha dimostrato di poter contenere qualunque progetto di conquista delle città da parte delle FARC.

Cosa nasconde la strategia statunitense? L’attacco agli Stati Uniti non solo ha reso superfluo l’uso da parte di Washington di maschere per la sua politica di dominio, ma ha fatto diventare ancora più importante il controllo del proprio “cortile di casa”. La guerriglia colombiana preoccupa  soprattutto per i suoi attentati contro gli interessi economici statunitensi nel paese e, in particolare, contro gli oleodotti. Per proteggere l’oleodotto della Oxy, il governo Bush ha deciso di finanziare una Brigata dell’esercito colombiano con novantotto milioni di dollari, da destinare in addestramento, armi, apparati di spionaggio. Un’operazione esemplare: il governo statunitense contratta un reparto dell’esercito locale per metterlo al servizio della multinazionale. Per la Colombia è una storia vecchia che ricorda il cosiddetto “massacro delle bananeras” del 5 dicembre 1928, descritto da Garcìa Màrquez in “Cent’anni di solitudine”, quando l’esercito colombiano sparò ad alzo zero contro la folla dei braccianti e dei loro familiari per difendere gli interessi della multinazionale United Fruit. Ma è anche un’emblematica storia di globalizzazione: con gli attentati e i sequestri, la guerriglia compromette i guadagni delle multinazionali petrolifere, che hanno conquistato altre porzioni del territorio colombiano.

Utilizzando il conflitto colombiano, gli USA stanno rafforzando la loro presenza militare in una zona dell’America Meridionale che va dal canale di Panama e dalla costa atlantica fino alla foresta amazzonica e alla costa pacifica. È una regione ricca come poche altre al mondo di petrolio, acqua, carbone e uranio. Per anni il governo statunitense,  i governi locali e l’UE hanno ribadito che queste basi sarebbero servite esclusivamente nella lotta al narcotraffico. Da adesso, verranno invece ufficialmente utilizzate contro il terrorismo.

Il progetto strategico degli Stati Uniti è l’allargamento a sud del mercato del Nafta, attraverso la creazione della ALCA (Area Libera di Commercio delle Americhe) in tutto il continente.

Ma cosa intendono gli USA per “terroristi”? In Colombia, le FARC e l’ELN. Nella lista nera dei 32 gruppi da colpire attraverso la campagna Enduring Freedom, ci sono in verità anche le AUC, con le quali Washington mantiene un atteggiamento fariseo. Pubblicamente le condanna, così come critica l’esercito colombiano, accusato di mantenere con loro un’impudica unità d’azione. Nella pratica, però, non si è mai fatta alcuna remora a servirsene. Chi è “terrorista” oggi può diventare un “combattente della libertà” domani, e viceversa. Nell’accezione in uso a Washington, i “terroristi” vanno quindi ben al di là della guerriglia.

La guerra infinita e a tutto campo contro il terrorismo proclamata dopo l’undici settembre non risparmierà la Colombia: la linea dura di Bush trova un’entusiasta partigiano nel presidente Alvaro Uribe Velez, nemico dichiarato di qualunque negoziato con la guerriglia, sostenitore dei peggiori violatori dei diritti umani in divisa e candidato dei paramilitari. Oltretutto, Uribe è anche ricattabile per le sue pubbliche amicizie con vari e noti narcotrafficanti. Qualcuno a Bogotà ha iniziato a chiamarlo lo “Sharon colombiano”, ed è più che probabile che i suoi risultati saranno simili a quelli ottenuti dal primo ministro israeliano.

 

 

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