Il violino

di Benedetta Guastoni

 

Filippo guardava fuori dalla finestra. Il giardino era spoglio. Non c’era più alcuna traccia dell’estate. La casetta degli attrezzi pareva abbandonata, il prato scolorito, la terra intorno alle rose era scura e dura. Come il suo cuore: rinchiuso nel vuoto, intrappolato in una morsa di tristezza profonda. Non riusciva a stare lì fermo a guardare quel posto a lui così famigliare che presto avrebbe dovuto lasciare e forse dimenticare. La mamma lo chiamò: era arrivato il camion. Filippo scese rapidamente le scale e andò in cucina, da lì si godeva una vista stupenda. Guardò il mare. Era immenso e buio come il suo dolore. Un dolore che non riusciva a esprimere, che non poteva accettare, che non voleva abbandonare. Suo padre era morto. Quella curva, quella frenata, quel rumore sordo e impossibile l’avevano portato via. Un attimo e il buio e poi il vuoto. E mentre tornava a galla il dolore, riemergeva nitido il ricordo. Quel pomeriggio piovoso stava suonando il violino, non pensava ad altro che a quel pezzo difficile, e le note riempivano la sua mente, colmavano ogni pensiero.... Le sue dita correvano agili sulle corde poi si fermavano sospese. Filippo non si perdeva d’animo, non si scoraggiava mai. Odiava lasciare le cose a metà. Era determinato, deciso e forse un po’ ostinato, ma anche suo padre era così, ne andava fiero. Gli piaceva impegnarsi e poi assaporare lentamente il piacere che gli derivava dall’aver superato l’ostacolo. Si sentiva più forte e più ricco. Di quella fierezza non c’era più alcuna traccia in lui. Il dolore l’aveva reso diverso e lui stesso era incapace di riconoscere in quel silenzio sordo del suo animo qualcosa di conosciuto e famigliare. La mamma lo chiamò ancora. Doveva andare. Filippo chiuse gli occhi e rimase immobile, in silenzio; forse era solo un sogno, un incubo che sarebbe svanito nell’aria, come una bolla di sapone. Filippo riaprì gli occhi, e una lacrima timida ma impossibile da trattenere scivolò sulle sue gote pallide. Prese l’ultima valigia, e senza voltarsi indietro salì in macchina. Il viaggio sembrava non voler finire mai. Filippo guardava fuori dal finestrino, il suo sguardo perso nel paesaggio; nelle colline e nei campi, nel cielo e nel sole, che, ormai, stava tramontando. Era così grande, così placido, così incantevole, così maestoso. Mentre lo guardava, nella sua mente e nel suo cuore riaffioravano i momenti felici che aveva trascorso con suo padre, il suo sorriso dolce e fiero, i suoi occhi neri, grandi e lucenti, le sue mani robuste, che solevano accarezzarlo, il suo volto, aperto e solare. Filippo strizzò gli occhi, basta, basta, basta, non voleva che quell’immagine esplodesse nella sua testa. Sua madre guidava, in silenzio, di tanto in tanto lo guardava con occhi colmi d’amore, ma non diceva nulla, non faceva nulla. Filippo si accorgeva di quegli sguardi affettuosi, ma nemmeno lui parlava. Erano scossi e tristi entrambi. Arrivarono la sera, per l’ora di cena, a casa dei nonni, nelle colline torinesi. Filippo andava spesso a trovare la famiglia materna quando c’era anche suo padre, Torino gli piaceva da impazzire. Ma quella volta era diverso; quella volta Torino era per lui una triste prigione, quei portici che gli piacevano tanto si erano trasformati adesso in gabbie di ferro che lo tenevano rinchiuso nel suo dolore, e piazza Vittorio, dove prima sognava di trasferirsi un giorno, ora era per lui solamente un luogo, tra tanti, indistinto e opaco. I nonni li accolsero calorosamente. La tavola era già imbandita. Pìng e Pong, i due Labrador neri, scodinzolavano allegramente mentre il gatto Romeo se ne stava appollaiato sul suo tavolino preferito, in ingresso, sonnecchiando, ma Filippo sapeva che anche lui era felice di vederlo. La nonna lo abbracciò forte e il nonno gli scompigliò i capelli e li fecero accomodare in salotto. Filippo si sedette e sospirò. Quella sera non aveva aperto bocca. Da quando aveva appreso la morte del padre aveva disturbi nella parola, balbettava, e non riuscendo ad accettare questa situazione, preferiva stare in silenzio. Il nonno si sedette accanto a lui e lo guardò con i suoi occhi azzurri e limpidi come quelli della mamma, poi gli mise una mano sulla spalla e disse: “Le persone, Filippo caro, sono porte chiuse. Per ognuna c’è una chiave precisa. E senza quella chiave, la chiave delle emozioni, non riuscirai mai a guardare nel loro cuore. Ecco, vedi, in questo momento tu hai perso la chiave del tuo cuore: è sprofondata negli abissi del dolore, ma tornerà a galla se lo vorrai e ti lascerai aiutare. Ricordati queste mie parole, ricordatele sempre. Ascoltami bene, Filippo, so cosa provi, so che cosa vuol dire perdere qualcuno e avere la consapevolezza che non tornerà mai, ma tu devi essere forte, non devi perdere la chiave della tua vita. Rifletti figliolo, rifletti, pensa a ciò che ti ho detto. Non dimenticare, continua a vivere”. Il nonno gli accarezzò dolcemente il viso e poi si allontanò, in silenzio. Romeo si accoccolò sulle sue ginocchia.

Filippo si addormentò sul divano, crollò in un sonno profondo appoggiato al corpo caldo, rossiccio e vellutato di Romeo. Si avvicinarono anche Ping e Pong, forse erano solamente gelosi, forse volevano sollevarlo dalla sua tristezza, forse volevano semplicemente dimostrargli il loro affetto. La mattina seguente si svegliò sentendo piangere sua madre, nella stanza accanto. Era un lunedì mattina, il sole era appena spuntato ma la mamma era già sveglia, e piangeva. Filippo non si mosse. Sprofondò nel cuscino. I suoi genitori si amavano, si amavano tanto. Litigavano spesso, ma facevano sempre pace. Non aveva mai visto sua madre piangere. Tante volte la signora Riva si era commossa, spesso mentre vedevano film drammatici doveva coprirsi gli occhi per non vedere scene troppo tristi, ma mai e poi mai l’aveva vista piangere quando c’era suo padre. Elena Riva era una donna forte, determinata, riusciva a superare qualsiasi cosa. Neanche Filippo voleva piangere. Era un uomo, un “soldato", non poteva piangere, roba da femminucce e da bambini piccoli. Ma da quando suo padre li aveva lasciati non riusciva a trattenersi. Cercò di trattenere le lacrime, come al solito. Mentre stava pensando alla sua chiave, affondata nell’oceano della sua malinconia e del suo dolore, sentì dei passi che si avvicinavano alla camera di sua madre. Era la nonna. Sentì bisbigliare qualcosa, ma era troppo stanco per ascoltare. Quasi senza accorgersene si riaddormentò. Lo svegliò qualcosa di umido, freddo e un po’ viscido. Era Pong, il cagnone dei nonni che come suo solito lo stava salutando con affetto. Filippo allungò la mano per accarezzarlo e dopo un paio di minuti Pong aveva compiuto la sua missione: farlo alzare in piedi. Si guardò intorno. La sua camera era molto grande. Le pareti color crema, il parquet antico e i grossi armadi d’epoca davano alla stanza un qualcosa di magico. Il pavimento e la scrivania erano ricoperti da montagne di scatoloni che invadevano la stanza fino ad arrivare al letto. Filippo ne aprì uno, prese un paio di scarpe, vestiti puliti e poi scese in cucina, per fare colazione.

Un profumo inconfondibile aleggiava nell’aria: caffè. La nonna aveva preparato una colazione splendida: il colorito dorato delle brioches, i colori accesi delle marmellate e della spremuta d’arancia sembravano voler regalare un briciolo di felicità. La mamma lo stava aspettando. I suoi occhi erano arrossati e gonfi, si vedeva che aveva pianto tanto. Filippo si avvicinò alla madre che lo baciò sulla fronte. “Tesoro - disse - sai che giorno è oggi? E’ lunedì. Io ti ho iscritto alla scuola media che c’è qui vicino. Se non ti va di andarci oggi potrai cominciare domani, ma prima o poi dovrai riprendere gli studi. Anche io torno a lavorare: mi hanno assunto nel reparto di pediatria dell’ospedale Koelliker. Filippo, abbiamo sofferto tanto, lo so. Ma qui a Torino, vedrai, troverai dei nuovi amici, stai tranquillo, e magari riprenderai a suonare il violino. Ora mangia tesoro... la nonna ha preparato tutte queste cose buone per tirarti un po' su di morale”. Filippo si sedette e un morsa di ghiaccio gli strinse la gola impedendogli di dire qualsiasi cosa. Addentò una brioche alla marmellata di albicocca e guardò la mamma.

La mattina seguente i nonni e la mamma lo convinsero ad andare a scuola. Era un martedì, faceva piuttosto freddo e un sole opaco e triste splendeva nel cielo azzurro ghiaccio, quasi bianco. Dopo aver salutato i nonni lui e sua madre si diressero verso la scuola. Venne ad accoglierli un uomo alto e imponente, dai capelli quasi grigi e dagli occhi scuri come il carbone: il preside. Aveva mani enormi, massicce e piuttosto pelose. Indossava una camicia azzurra con le iniziali R.G. e pantaloni grigi, che cadevano diritti sulle scarpe nere come i suoi occhi. Con la signora Riva era molto gentile e sorridente, forse perché attratto dalla sua bellezza e dalla sua eleganza. Filippo divenne rosso in volto. Come si permetteva quello sconosciuto? Guardare sua madre in quel modo? Dopo poco sua madre li salutò e si allontanò con il suo passo sicuro ed elegante. Il preside guidò Filippo nella sua nuova classe. Appena varcata la soglia risatine soffocate e sguardi di complicità lo fecero sprofondare nella vergogna e una situazione di disagio e imbarazzo gli strinse il cuore. La professoressa Grand Rond, l’insegnante di francese, lo accolse con un sorriso e lo fece sedere vicino ad una ragazza piccola e magra, al primo banco davanti alla cattedra. “Allora, tu come ti chiami?” chiese l’insegnante subito dopo che il preside se ne fu andato. “I-i-io so-sono Filippo-po Lo-loscheri. “La classe scoppiò in una fragorosa risata. La professoressa li zittì e poi preferì sospendere le presentazioni. Il ragazzo era viola dalla vergogna, i suoi occhi luccicavano di pianto per la pessima figura che aveva fatto. La professoressa Grand Rond era sempre gentile con tutti (anche se a dire il vero tendeva ad ignorare un po' il nuovo alunno). Da quel giorno in poi la vita di Filippo si tramutò in un incubo. Ogni giorno i suoi compagni si divertivano a prenderlo in giro per il suo accento toscano, a farlo cadere per le scale, a rubargli la merenda o a incolparlo di azioni che non aveva mai commesso davanti al preside. Filippo cercava di difendersi, a volte, ma invano. Il capo della banda dei teppisti era Giorgio Pratino. Filippo lo detestava ma ne aveva paura. Era un ragazzo alto e robusto, dai lineamenti marcati. Gli occhi e i capelli scuri davano al suo volto un'espressione seria, che incuteva timore. Aveva un naso grosso e dritto, labbra sottili e poco colorite, sopracciglia folte e scure. La sua risata era forte e fragorosa, la sua voce possente, da tenore: era stato bocciato all’esame di terza media ed aveva un anno in più. Nella classe lo seguivano tutti, a comando, tutti a parte Giulia.

Giulia era la vicina di banco di Filippo ed era piuttosto bruttina. I suoi capelli castani erano ricci, e sempre ingarbugliati, gli occhi verde oliva, un po' a mandorla, spiccavano nel candore della carnagione. Con lei Filippo riuscì a parlare. Tutto cominciò quando, un giorno, Giorgio e la sua banda avevano sporcato di tempera rossa il sellino della bicicletta con cui Filippo ogni giorno tornava a casa. Stava per montare in sella quando udì una voce: “Attento! Filippo non ti sedere!” era Giulia. Filippo guardò meglio e vide la tempera sparsa uniformemente su tutto il sellino. La ragazza si avvicinò. “Ti conviene stare attento prima di fare qualsiasi cosa. Se diventi il loro bersaglio, la loro preda, credo tu l’abbia già imparato, è difficile liberarsi dai loro scherzi...” disse con la sua voce lieve. “Grazie Giulia sei stata molto gentile. Tu non sei come tutti gli altri” balbettò Filippo cercando di non bloccarsi. “Certo che non lo sono. Sarebbe il colmo assomigliare a quella banda di teppisti insopportabili. Vedi che anche tu sai dire qualcosa di carino. Non devi avere paura, tra un po' prenderanno di mira qualcun altro e ti lasceranno in pace” riprese Giulia. “Davvero lo pensi? Io sono così confuso, non capisco più niente. Non so che cosa devo fare, non riesco neanche a parlare, non ce la faccio più“ mormorò Filippo con difficoltà. Giulia gli batté una mano sulla spalla e poi concluse: “Tieni, con questi fazzoletti pulirai il sellino. Ricordati che devi essere coraggioso, non avere paura, affronta la vita guardandola in faccia, non le voltare le spalle...” Poi si girò e se ne andò. Della tempera non c’era traccia, il ragazzo montò sulla bicicletta e si diresse verso casa. “Prima il nonno e la mamma, poi Giulia, tutti mi ripetono la stessa frase: devi avere coraggio. Io non riesco ad avere coraggio. Non ho la forza di voltare pagina, né di cominciare una nuova vita. Vorrei recuperare la mia chiave ma non sono in grado di farlo, così come mi piacerebbe riprendere a suonare il violino, ma dentro di me qualcosa mi dice che devo restare fermo, immobile e muto davanti al mio dolore. Lo so che devo essere forte per aiutare la mamma, per rendere felice il papà...” Filippo rifletteva, a rompere quei pensieri confusi e intrecciati che gli stavano invadendo la mente fu il rumore di un clacson. Filippo riconobbe l’auto dei nonni, che erano tornati dal mercato e si offrivano di dare un passaggio a lui e alla sua bicicletta. Filippo accettò e in breve arrivarono a casa. La nonna preparò qualcosa, il ragazzo, poi, salì in camera sua. Gli scatoloni erano spariti: era tutto sistemato. Sulla scrivania c’era, però una custodia molto familiare: la custodia del suo violino. Filippo si avvicinò silenzioso come un gatto e sfiorò quella pelle nera, ruvida e fredda con la punta delle dita. Poi lo prese e si sedette sul letto. Lo tenne qualche minuto, sulle ginocchia, come se quel violino gli trasmettesse energia e lo rincuorasse. Poi sentì dei passi, dietro di lui: era la nonna. L’anziana signora Riva si sedette accanto al nipote e lo accarezzò dolcemente. “So che da quel giorno non suoni più. Ho messo lì il tuo violino pensando che forse avresti ripreso tra le mani l’archetto. Sai tesoro mio, forse proprio suonando e rievocando la memoria di tuo padre riuscirai a superare questo periodo difficile. Ti consiglio questo, gioia mia, se ti va continua a suonare... ora vado, ti lascio ai tuoi pensieri e al tuo violino, forse hai voglia di restare solo”. Dopo aver detto questo si allontanò. Filippo aprì la custodia e strofinò le dita contro i crini dell’archetto, poi soffiò via la polvere che si era depositata tra le corde e richiuse la custodia. Passarono i giorni e Filippo sentiva che non poteva continuare a comportarsi come un vigliacco. Dov’era finito l’animo orgoglioso di un tempo? Chiese consiglio a Giulia e al nonno; entrambi sostennero la sua idea: era ora di cambiare la situazione, stava diventando troppo pesante. Si iscrisse così all’agonismo di nuoto, che praticava già in precedenza, per irrobustire i muscoli e la salute, poi decise di fare due volte correndo il giro dell’isolato ogni sera prima di mangiare, e infine, seguì il corso di logopedia della dottoressa Bianchi, un’amica della mamma. Riprese a studiare e a leggere qualche libro prima di addormentarsi, e ogni tanto, improvvisamente, andava a sfiorare il suo violino, come se gli trasmettesse coraggio ed energia. I risultati a scuola migliorarono e l’amicizia con Giulia divenne sempre più forte.

Un giorno in classe accadde un fatto strano. Ad un tratto, durante l’ora di matematica, la signorina De Fazio, l’insegnante, divenne rossa in volto, come se avesse ingoiato un peperoncino intero. I ragazzi si guardarono, quasi paralizzati dal terrore. Quella vecchia spilungona era sempre così pallida che l’avevano soprannominata “Il fantasma di Chanterville”, anche perché quella cornice di pece dei suoi capelli e dei suoi abiti non veniva mai illuminata neppure da un sorriso. Un chewing­gum le si era attaccato alla gonna, mentre si era seduta sulla sedia. La professoressa fissò gli alunni, con i suoi occhi grigi di ghiaccio. “Chi è stato?” domandò. Silenzio assoluto. “Chi ha masticato questa gomma americana, e non ha avuto la minima educazione di gettarla nel cestino? L’avete fatto apposta, vero?! Maledetti delinquenti! Vengano immediatamente fuori i nomi o il nome!” gridò. Silenzio totale, ancora. “Se non viene fuori il colpevole la classe intera verrà punita severamente: starete in classe ancora mezz’ora dopo la fine delle lezioni per due mesi, niente chiacchiere: ditemi chi è stato!” Filippo si alzò in piedi, di scatto. Giulia sorrise. “Professoressa De Fazio, mi scusi, non è corretto punire tutta la classe solo perché lei non è in grado di scoprire chi abbia veramente attaccato il chewing-gum sulla sua sedia. Inoltre, le ricordo che le lezioni non possono finire ad orari stabiliti dagli insegnanti. Tutti gli studenti di terza media, che non frequentano il corso bilingue devono obbligatoriamente rimanere a scuola per trenta ore la settimana né meno né più. Se permette ho da dirle un’ultima cosa; non credo che nessuno le dirà mai chi è il colpevole”. Filippo si lasciò cadere sulla sedia. “Non hai balbettato! Hai fatto un discorso meraviglioso... Sei stato grande! Sapevo che ce l’avresti fatta!” bisbigliò Giulia. L’insegnante rimase senza parole e dalla classe si levarono applausi fortissimi. Al suono della campanella i ragazzi si scaraventarono fuori dall’aula. Ed ecco che con una gomitata, o un occhiolino, o una pacca sulla spalla i compagni gli dimostravano un briciolo di riconoscenza. Insomma, sembrava che la situazione, a scuola, stesse migliorando. Stava crescendo dentro di lui un po' di sicurezza e il suo orgoglio stava venendo a galla lentamente. Il giorno dopo, però, scoprì che le sue speranze non si stavano avverando del tutto. Giorgio Pratino sembrava essere scomparso nell’ombra, la classe, ora, aveva capito che Filippo non era un “cocco di mamma” così come non era nemmeno un “Pesce morto”, ma era una ragazzo come tutti, e anzi forse la sua tragedia l’aveva reso più sensibile: un po’ speciale, per questo molti preferivano non infastidirlo più. Pratino però non doveva farsi mettere i piedi in testa, avrebbe riconquistato il posto di leader della classe, in qualsiasi modo. Iniziò a colpire Filippo non solo con violenze verbali ma anche corporali. Accadeva spesso che Filippo si ritrovasse in fondo alle scale, con il viso bagnato di sangue, erano diventati regola gli spintoni, i cazzotti, gli sgambetti, i calci negli stinchi. Filippo non voleva dirlo a nessuno, neanche a sua madre, sperava che fosse solo un periodo particolare, probabilmente Giorgio si sentiva messo da parte, si sentiva in qualche modo attaccato, forse minacciato... Filippo non capiva ma si sforzava di farlo.

Passarono un paio di settimane dall’episodio del chewing-gum e una mattina davanti a scuola apparve uno scooter, rosso fiammante. Quel giorno Filippo era in ritardo, ma non riuscì a staccargli gli occhi di dosso per cinque minuti. Sul lato destro la scritta "Scooter Thinphoo50" brillava, illuminata da quel sole mattutino. Mentre si chiedeva a chi potesse appartenere quel gioiello, Filippo si accorse che le lezioni erano già iniziate e corse su per le scale, fino ad arrivare in classe. La mattinata trascorse velocemente, le lezioni volarono via in un soffio e all’uscita il motorino era ancora lì, aspettava. Filippo si avvicinò di nuovo, insieme a Giulia per guardarlo. All’improvviso sentirono una voce roca e forte “Vi piace eh? Pivelli? Tu Filippuccio caro non puoi comprarlo, la mamma altrimenti si preoccupa... E la signorina “Difendiamo i deboli” cosa ne pensa?? Ti piacerebbe avere qualcuno che ti portasse in giro con questo gioiello!?” era Giorgio Pratino. Montò in sella, senza casco e impennò, facendo ruggire il motore, come fosse un leone in cerca di nuove prede. All’improvviso qualcosa andò storto. La moto andava indietro, stava in piedi sulle due ruote posteriori, il ragazzo continuava a girare, a girare, a girare, per la via davanti alla scuola... poi un rumore strano, tanti pezzi di metallo che sfrecciavano per terra: Giorgio Pratino disteso a terra, senza sensi. Mentre Giulia chiamava l’ambulanza Filippo cercava di tamponare la ferita che aveva sulla nuca. Dopo qualche secondo le sirene annunciarono l’arrivo della croce rossa, Pratino fu portato in ospedale, Filippo e Giulia a casa.

Nel frattempo Filippo aveva ripreso a balbettare, in un incidente anche suo padre aveva perso la vita. Mentre due lacrime scendevano dai suoi occhi salì in camera la madre. “Filippo, quel tuo compagno di classe è stato ricoverato da me, è in coma, non so se ce la farà. Bisogna avere pazienza e aspettare. In alcuni casi la stimolazione continua con suoni, parole e massaggi ha sbloccato la situazione, ma si tratta solo di supposizioni. Non c’è nessuna prova. Tuttavia tenteremo anche questa strada. Non abbiamo ricevuto grande aiuto nemmeno dalla famiglia, il tuo compagno ha i genitori divorziati, non si possono vedere da quanto si odiano e il loro lavoro li impegna moltissimo. Nel bene e nel male Giorgio ha sempre dovuto cavarsela da solo, è un ragazzo reso uomo dalla vita prima del tempo. Adesso ti lascio. Sei stanco, riposati un po’”. La mamma lo abbracciò e poi tornò al piano di sotto. Filippo stava immobile, sul suo letto. Guardava il soffitto con occhi vuoti. Non sapeva che cosa doveva fare.

Prese la custodia del violino, con uno scatto la aprì. Accarezzò quel legno lucido, ripulì un archetto, poi si sistemò il violino sotto il collo e cominciò a suonare...♫♪. Le sue dita erano tornate in vita, si spostavano sicure, manovravano l’archetto con facilità. Quel pezzo di Mozart era il suo preferito. Gli tornava in mente il sorriso di suo padre che lo incoraggiava a fare ancora meglio. “Complimenti!” era il nonno, dal piano di sotto aveva ascoltato quella sinfonia e ne era rimasto incantato. “L’avrebbe suonato per rompere il coma di una persona, anche se era molto crudele?” chiese il ragazzo. “Tuo padre l’avrebbe fatto” rispose il nonno. “Mio padre l’avrebbe fatto” si ripeté. Filippo uscì. Prese la bici e fissò con cura sul portapacchi la custodia del violino. Percorse la discesa, costeggiò il fiume, stringeva forte il manubrio, come volesse spezzarlo. Doveva fare mente locale per ricordarsi come arrivare all’ospedale. Era confuso e aveva paura. Pedalava sempre più veloce, era come volare, intanto pensava al suo compagno. Giunse di fronte al Koelliker. Prese il suo violino ed entrò. Alla reception stava una ragazza giovane con un grosso sorriso stampato sulle labbra, i capelli raccolti e ordinati, il volto addolcito da un filo di trucco. “Posso esserti utile?“ chiese con una voce mielata. “Vorrei sapere in che stanza è ricoverato Giorgio Pratino“ rispose Filippo balbettando. “Sei un amico?” domandò nuovamente la giovane. “...Sì” esclamò Filippo sospirando per l’emozione. “La sua stanza è la 219. Al secondo piano, attraversando il corridoio svolta a destra, in fondo c’è la 219” la ragazza sorrise nuovamente e guardò Filippo allontanarsi. Percorse le scale e il corridoio con il cuore affogato nell’ansia e nell’emozione, ma era felice. Entrò senza fare rumore. La stanza era vuota, silenziosa, non c’erano né infermiere, né amici, né parenti; erano solo loro due. Filippo guardò Giorgio. Era disteso privo di sensi sul lettino pulito, bianco e azzurro, coperto fino alle spalle dalle lenzuola, la testa ferma sul cuscino. Il suo volto pallidissimo, sfregiato da graffi e lividi era intrappolato da tubi e bende. Il rumore monotono del monitor bip, bip, bip, bip scandiva quegli attimi infiniti. Filippo preparò il suo violino. Guardò quel ragazzo che era stato la fonte di tanti dispiaceri e stringi-cuore, poi lo guardò meglio, gli tolse la maschera da “duro” che gli era stata impressa in volto, e vide un Giorgio semplice, come tutti gli altri, che aveva sofferto e che aveva ricevuto poco affetto. Pensò che suo padre avrebbe fatto lo stesso. Si sistemò il violino sotto il mento e attaccò a suonare il suo pezzo preferito. Quella splendida melodia di Mozart, della quale sapeva le note a memoria scivolava veloce dai movimenti dolci dell’archetto. Le sue dita si muovevano veloci. Ecco rivedeva tutti gli esercizi che faceva con suo padre, gli sforzi che compiva ogni pomeriggio, le gratificazioni che riceveva. Senza mai fermarsi suonava con gli occhi chiusi, concentrato al massimo. Senza che se ne accorgesse entrò Giulia, che lo guardava sorridendo. Finì il pezzo, speranzoso di vedere il suo compagno di nuovo in vita. Non era successo nulla. Filippo si copri gli occhi con le mani, pensava di aver finalmente aiutato qualcuno, invece niente. Giulia si avvicinò: anche lei era triste. All’improvviso qualcosa si mosse. I due alzarono gli occhi: Giorgio li guardava con debolezza, sulle sue labbra splendeva un sorriso opaco e debole. Giulia schizzò fuori dalla stanza alle stelle per la felicità “E’ vivo! Si è svegliato!“ gridò. La madre di Filippo corse verso la stanza seguita da un’infermiera. “Siete stati fantastici ragazzi! Mi congratulo con voi, noi avevamo perso quasi ogni speranza!” esclamo la dottoressa Riva raggiante. Anche Filippo era felice. La madre di Filippo si avvicinò al lettino e sorrise anche al ragazzo che aveva fatto tanto soffrire suo figlio. Poi si allontanò insieme a Giulia e a Paola, l’infermiera. Rimasero soli. Nessuno disse niente, quel silenzio era gonfio di parole, avevano tante cose da dirsi ma non aprirono bocca. Si guardarono solamente. Dai loro sorrisi si intravedeva un passato infelice ma la volontà di ricominciare. Stettero immobili a fissarsi per minuti che sembravano interminabili. Poi Filippo prese il suo violino, sorrise a Giorgio e si allontanò, il suo cuore era invaso dalle parole: “Mio padre sarebbe fiero di me...”

 

Il giudizio della giuria:

L’argomento è stato trattato con un’apprezzabile capacità narrativa; si riscontrano una certa attitudine alla descrizione accurata e un linguaggio ricco ed espressivo, segno di una buona cura formale.

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