Nella Vienna dell'Art Nouveau e di Freud, dell'alta borghesia e della mondanità si consuma la storia di Ernst Hirschfelder, professionista affermato e uomo distinto. La sua vita però è tutt'altro che serena, si consuma costantemente fra la banalità della quotidianità e l'eccezionalità del segreto che egli conserva gelosamente. In un incessante profluvio di parole, Ernst ripercorre la sua esistenza, insieme con l'insegnante di liceo cui era tanto affezionato e arriverà finalmente ad aprirsi, a mostrarsi nella sua vera natura e con i forti e intensi sentimenti che la vita di relazione lo costringeva a mascherare. É l'epifania di un uomo, del suo animo, delle sue passioni; è la storia surreale e fantastica di un segreto inconfessabile. Il tutto ambientato nella magnifica capitale austriaca che, in questo racconto, rivive i momenti del suo più alto splendore.
Se vuoi, puoi leggere qui di seguito l'intero racconto, ma - considerata la mole - ti consiglio di scaricarlo come file di testo o come documento da aprire con Acrobat Reader.
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L’orologio in Hoher Markt cominciò a suonare. Il notaio Hirschfelder passò per la piazza, indifferente al nuovo spettacolo offerto dall’Ankeruhr, con la sua sfilata di figure storiche riunite in un improbabile corteo musicale: Carlo Magno al fianco dell’imperatrice Maria Teresa, accompagnata da Marco Aurelio, tutti in un carosello più coreografico che storico.
Si diresse con passo deciso verso Stephansplatz, attraverso le strette e affollate vie di una Vienna sempre più vivace e in fermento. Arrivato ai piedi del Duomo, alzò gli occhi verso gli slanciati pinnacoli gotici e il tetto a mosaico, ma subito proseguì per la Kärntnerstraße.
A quell’ora la strada era sempre affollata di gente, di mercanti che vendevano i propri prodotti, di ricchi uomini d’affari che a piedi o in carrozza si spostavano per il centro storico; fra questi passò anche Herr Silbermann, facoltoso commerciante e suo cliente, che, appena lo vide, lo salutò con riverenza, sollevando il cappello.
Ernst Hirschfelder, però, di norma così attento e cortese, era talmente distratto e in balìa dei suoi pensieri che nemmeno lo notò e tirò dritto per la sua strada, quasi accelerando gradualmente il passo. Camminava a testa bassa, guardando per terra, nascosto sotto una scura lobbia, la cui ampia tesa proiettava un’ombra che quasi gli celava il volto. Giunto in Karlsplatz, si arrestò, fermato dal traffico di carrozze, automobili e tram che circolavano, con grande frastuono; attraversò con cautela la piazza e svoltò a destra lungo la Linke Wienzeile. Ancora pochi passi quasi di corsa e poi si fermò di colpo, davanti al numero 38.
Ernst Hirschfelder si guardò intorno, fece qualche passo verso l’androne, si fermò di nuovo, tornò indietro di pochi passi, poi, alzando il capo con decisione e inspirando profondamente, entrò nel palazzo.
Passato un grande portone di legno riccamente decorato, emblema dello Jugendstil[1], entrò nel vasto androne, dal fondo del quale si snodava una ampia scalinata dall’elegante ringhiera in ferro battuto: elementi floreali e disegni geometrici si intrecciavano con armonia grazie all’abile mano del fabbro che li aveva modellati. Salì le scale quasi di corsa e, senza esitare un solo istante di più, suonò il campanello della porta al secondo piano.
Dall’interno si sentirono i passi di qualcuno che si avvicinava, la chiave girò e la porta si aprì.
Comparve la faccia serena e sorridente di un anziano signore, dai capelli bianchi, che portava un’elegante giacca di velluto bordeaux. Questi si sistemò meglio gli occhiali sul naso e sorrise ancora più apertamente:
“Benvenuto, caro Ernst! Che piacere rivederti!”
“Buongiorno, Professor Gottlieb! La ringrazio di avermi ricevuto così tempestivamente! Permette che l’abbracci?”
“Ma certo, kind majnß[2]! E io posso ancora darti del tu?” aggiunse il Professore, accompagnando la domanda con un sorriso bonario. “Ho seguito la tua carriera, so che sei un notaio di fama, qui in città. Il tuo biglietto di ieri mi ha stupito non poco, ma sarò lieto di offrirti il mio aiuto, dato che me l’hai chiesto con tanta urgenza.” Qui l’espressione divenne più pensosa. “Hai fatto appello alla stima e all’affetto che ho sempre provato per te e so che non faresti mai leva su questi miei sentimenti per un motivo che non sia più che grave.” Le ultime parole erano state scandite in modo quasi solenne. Il Professore poi si riscosse e, prendendolo sotto braccio, proseguì: “Vieni, entra, accomodiamoci in salotto! Forse l’ora non è adatta, ma gradiresti a glesl tej[3]?”
“Volentieri, Professore!” rispose Ernst. “Chissà che un tè non serva a distendermi e a fare un po’ d’ordine nei miei pensieri così confusi…”
“Beh, allora aspetta ancora qualche minuto, mentre io preparo il tè! Intanto, se vuoi, puoi dare un’occhiata in giro per la casa o dal balcone. È una casa moderna, ma offre tanti aspetti assai piacevoli. Avrai sicuramente notato la facciata, quanto è particolare, e l’atmosfera piacevole che si respira sulla strada. Ma vai, scoprilo tu stesso, di persona! Io arrivo subito.” E si avviò verso la cucina.
Ernst, però, non voleva che alcunché lo distraesse dal motivo che lo aveva spinto dal suo vecchio professore e pertanto uscì sul balcone solo per prendere una boccata d’aria onde trovare il coraggio per parlare.
Per strada si sentiva un gran rumore di auto e tram, di passi e un vocio diffuso provenire dal Naschmarkt[4], che si trovava proprio lì sotto. Dal mercato saliva una grande confusione di venditori che offrivano le proprie merci esotiche, decantandole ad alta voce, cercando di sovrastarsi l’un l’altro; Ernst sentiva un po’ propria questa grande confusione e quasi gli venne da urlare a sua volta per dimostrare che era lui il più confuso, con le mani a cono ai lati della bocca come le due statue che si affacciavano dal tetto.
Rabbrividendo, rientrò in casa e subito arrivò dalla cucina il Prof. Gottlieb, con in mano un vassoio su cui teneva in equilibrio due graziose tazze di porcellana e un piatto colmo di biscotti.
“Ecco qua il nostro tè!” annunciò sistemando il vassoio sul tavolino basso fra due poltrone. ”Ma sediamoci, presto, che ti ho già fatto aspettare abbastanza e, dal biglietto che mi hai mandato ieri, mi pare proprio che tu sia piuttosto in ansia.” I due presero posto sulle due poltrone disposte una di fronte all’altra, davanti alla finestra. “Ma dimmi un po’, prima di tutto, caro” cominciò Gottlieb, versando il tè a Ernst, ”perché ti rivolgi proprio a me? Premetto, naturalmente, che questo mi lusinga non poco.”
Ernst prese tempo, prima di rispondere: versò due cucchiaini di zucchero nella tazza e mescolò lungamente la bevanda. Nel frattempo, non aveva il coraggio di guardare negli occhi il vecchio Professore e si sentì quasi come quando, ancora scolaro, veniva interrogato e, temendo di sbagliare, rifletteva sulla risposta, guardando per terra o spiando di sottecchi i compagni, in attesa di un provvidenziale suggerimento.
Nonostante tutto, gli venne da sorridere: un uomo come lui, adulto e rispettato, che si sentiva e si comportava ancora come un bambino! Ora però non era più un brutto voto a spaventarlo; la prova che lo attendeva era più difficile di tutte quelle che aveva già affrontato: quello che stava per dire avrebbe condizionato la sua vita futura e, forse, avrebbe potuto fare vacillare anche il suo passato, le sue certezze, quell’affetto e quella stima che Gottlieb provava per lui, su cui Ernst aveva sempre fatto conto.
Si agitò, come se cercasse una posizione più comoda, rimase però poi seduto sull’orlo della poltrona, le mani strette sulle ginocchia, i muscoli tesi, lo sguardo sfuggente e il respiro affannoso:
“Ricorda quando ci siamo conosciuti, ormai quasi trentacinque, anzi no, trentasei anni fa? Fin dai primi momenti il nostro rapporto fu speciale, di grande fiducia, affetto e stima reciproca e nel corso di questi anni, anche se non ci siamo incontrati spesso, siamo costantemente rimasti in contatto e questo ha fatto sì che la nostra amicizia – mi permette di chiamarla così? – crescesse e diventasse più profonda. La Sua presenza costante in questi anni della mia vita, unita al ricordo della Sua figura ai tempi della scuola, nei primi giorni al Gymnasium[5], giorni per me così difficili, mi portano a chiederle aiuto.” Qui Ernst sorrise timidamente, quasi a chiedere conferma della disponibilità del Professore, che gli sorrise di rimando, rassicurandolo e invitandolo a proseguire.
“Quando entrai per la prima volta all’Akademisches Gymnasium, dopo averne percorso i lunghi e tortuosi corridoi, attraversato le ampie sale riccamente affrescate e dagli opulenti stucchi,” qui sorrise complice e divertito anche il Professore “arrivai in una classe per me completamente nuova; nuovi i compagni, nuovo l’ambiente, nuovi tutti gli insegnanti. Fino a dodici anni ero vissuto in un contesto quasi unicamente familiare e così in quei giorni dovevo cominciare ad affrontare il mondo esterno. In più l’ambiente circostante era opprimente nel suo grande fasto e, a quanto ne sapevo, la competizione fra i membri della scuola era, già a quella ancor tenera età, spietata. In quel momento, l’idea di dovervi trascorrere i successivi anni della mia vita mi sembrava ben poco allettante, anche perché sentivo gravarmi sulle spalle il peso della responsabilità di essere entrato a far parte di una delle migliori scuole di tutta la capitale.” La sua voce tradiva tuttavia un certo orgoglio per il privilegio di cui aveva goduto.
“L’essermi imbattuto, all’ingresso in classe, in Lei, così giovane, fresco di laurea, era stato un gran sollievo, che subito aveva cacciato dalla mia mente i grandi timori.”
A questo punto, Il Professor Gottlieb si distrasse, ricordando come, anche per lui, l’ingresso all’Akademisches Gymnasium avesse rappresentato una gioia, ma anche una gravosa responsabilità: da lui, un giovane insegnante al primo incarico di prestigio, il Direttore e i colleghi si aspettavano un comportamento autorevole, impeccabile e anche autoritario.
I ragazzi stessi erano abituati a temere gli insegnanti, più che ad apprezzarne le doti anche educative. Il suo ruolo di professore gli imponeva un modo di proporsi agli altri che non gli era proprio: doveva rappresentare per i suoi alunni un modello esemplare, quasi irraggiungibile, granitico, senza lasciare trasparire emozioni personali, dubbi o debolezze. Anche ora, che la differenza di età fra lui ed Ernst aveva meno peso – si trattava pur sempre di due uomini adulti – il suo ex allievo si rivolgeva al suo Professore come se questi fosse in grado di guidarlo verso la strada giusta. Sorrise fra sé e sé davanti a questa riflessione e si dispose ad ascoltare di nuovo quello che Ernst raccontava.
“Assistere alle sue lezioni era un modo assai efficace per distrarmi dalla vita quotidiana, per viaggiare con la fantasia attraverso luoghi mitici e per cimentarmi, soprattutto in greco e in latino, con sfide ardue; ardue davvero, ma pur sempre connesse con la vita reale, con la nostra lingua che, solo col tempo, ho capito essere uno dei cardini dell’esistenza di un uomo.”
Nel frattempo da un appartamento vicino, attraverso una finestra socchiusa, giungeva da un grammofono una struggente melodia; la distanza ed il fruscio non impedirono ad Ernst di riconoscere il quarto movimento, l’Adagietto, della Quinta Sinfonia di Mahler[6]. Il brano, tanto intenso e coinvolgente, rispecchiava fedelmente il suo stato d’animo. Le note però non riuscirono a distrarlo dal suo racconto e dai suoi ricordi, gli infusero anzi una rinnovata lena; e così riprese a parlare.
“Accennavo prima alla vita quotidiana dalla quale avevo bisogno di distrarmi: in famiglia, come forse ricorderà,” e guardò Gottlieb chiedendogli una muta conferma ”si respirava un’aria assai poco accogliente o, per meglio dire, opprimente. Il fatto di aver trovato in Lei, da subito, una figura solida, ma comprensiva mi faceva ben sperare per il futuro. Speravo che avrei potuto contare su di Lei per ogni problema, anche se per lungo tempo Le ho celato qualcosa che dopo, quando e se finalmente troverò la forza, Le confesserò.” Ernst sfuggì lo sguardo interrogativo di Gottlieb, perché non si sentiva ancora pronto a confessare il suo segreto. E continuò con voce più sommessa: “Probabilmente la sua grande premura era anche un po’ dovuta alla mia situazione di orfano di madre. Ricorderà certamente – quante volte ne abbiamo parlato, ma non mi stanco mai di continuare a ricordare – che solo due anni prima del mio ingresso al Gymnasium mia madre era morta e da quel momento l’aria in casa mia era diventata sempre più pesante e irrespirabile. Mio padre, d’altro canto, non lasciava spazio ad alcun divertimento e distrazione, considerando il rigore morale l’unico mezzo per onorare la figura ormai scomparsa di mia madre.” I tratti del volto di Ernst si fecero più duri, mentre gli occhi, stretti, esprimevano tutto il disprezzo che ancora provava per la mancanza di sensibilità manifestata all’epoca dal padre. “In quegli anni non pensava certo a rifarsi una vita, a guardare avanti e a seguire una nuova strada; così aveva trasmesso anche a me questa visione malinconica del futuro, visione che ancora adesso mi perseguita.” Di nuovo i suoi occhi lanciarono un rimprovero al padre. “L’unica figura femminile della mia vita” e qui il viso di Ernst si ammorbidì, gli occhi si aprirono e anche la voce si fece più dolce “era Grete, l’amata sorella di mia madre, che dopo la morte di lei era venuta a vivere da noi, visto che non aveva né un marito né figli da crescere. Lei, pur non avendo mai cercato di sostituire mia madre, mi rimase vicina nei momenti più difficili e mi aiutò a superarli, con il suo affetto e la sua serenità. Lei, una donna così semplice e modesta, tanto diversa da sua sorella, brillante ed estroversa, aveva saputo capire le mie esigenze, le esigenze di un bambino che nel giro di pochi mesi aveva visto morire di parto la madre e, poco dopo, anche il fratellino neonato.”
A questo punto Ernst prese dal vassoio la tazza di tè, la strinse fra le mani tremanti per sentirne il calore e poi la avvicinò alle labbra. A occhi bassi, sotto lo sguardo commosso e partecipe del Professore, bevve qualche sorso della bevanda, che parve rinfrancarlo. Riprese quindi a parlare, a bassa voce.
“Io amavo profondamente mia madre, una donna bella, dolce, affettuosa e curiosa, così ricca di interessi, allo stesso tempo però, forse per l’educazione ricevuta nell’infanzia, anche una donna molto precisa e ordinata. Con lei passavo molte ore a osservarla mentre dipingeva o ad ascoltarla mentre suonava al pianoforte brani classici, ma anche quelli moderni di Strauss, così allegri e spensierati.” E un’espressione quasi compiaciuta illuminò il suo volto, prima contratto e cupo.
“Mia madre amava poi collezionare piccoli oggetti che le ricordassero i momenti più significativi della sua vita, ma anche situazioni liete che le rendevano più piena la vita e che suscitavano in lei quel sorriso così meraviglioso. Ricordo” gli occhi di Ernst brillarono di emozione e la voce divenne meno ferma “che nei suoi armadi erano impilate diverse scatole, di varia foggia e colore, contrassegnate da un’etichetta su cui era indicato il contenuto; aprirle era una festa per gli occhi: bigliettini, nastri, fiori essiccati, spartiti, piccoli ritratti. Per ogni oggetto mia madre aveva una storia da raccontare e io rimanevo incantato dai suoi racconti, più che dalle fiabe per bambini.” A questo punto l’uomo sorrise lieto, come se riassaporasse quei bei momenti. “Io mi beavo delle sue parole, delle sue carezze, delle sue risate. Lei in questo modo mi trasmise le sue passioni, ma anche il suo rigore, che mi ha accompagnato in tutti questi anni di vita e professione.”
Ernst ammutolì di nuovo. Il Prof. Gottlieb lo guardò con discrezione e si accorse che l’uomo stringeva i denti e i pugni come se intendesse controllare l’emozione che lo aveva assalito. Il Professore distolse lo sguardo e attese con pazienza che Hirschfelder riprendesse a parlare.
“La nascita di Josef, il mio fratellino così atteso da tutti noi, mi privò in un istante dell’amore di mia madre e della sua gioia di vivere. Questo lutto cambiò di colpo la mia vita: non sarei mai più stato quello che ero prima.”
Ernst pronunciò queste ultime parole con voce sempre più flebile, poi tacque, chinò la testa e con un dito asciugò rapidamente una lacrima. Il Prof. Gottlieb notò questo gesto e sentì il turbamento di quell’uomo che sedeva davanti a lui.
Con la scusa di portare in cucina tazze e teiera, si allontanò, in modo da lasciare il tempo al suo ex allievo di riprendersi e ricomporsi. Quando il Professore tornò in salotto, Ernst era ancora seduto sulla poltrona, ma aveva la testa alzata ed era visibilmente più calmo. Gottlieb si avvicinò a Ernst, gli pose delicatamente la mano sulla spalle e gli sorrise, incoraggiandolo a continuare. Ernst riprese il suo racconto, senza avere però la forza di guardare il Professore negli occhi.
“La presenza di Josef, gracile e malaticcio, mi irritava; non riuscivo a provare affetto o almeno compassione per lui. Tanto meno riuscivo ad amarlo, perché lo consideravo colpevole della morte di mia madre. Pochi mesi dopo la nascita, Josef morì e il mio odio nei suoi confronti venne sostituito da un senso di colpa, come se io avessi contribuito a scacciarlo da questo mondo.”
Ernst era seduto con le spalle curve, come se sentisse ancora il peso di questa colpa. Aggiunse poi timidamente: “Lei, Professore, venne a conoscenza della mia condizione o la intuì e, forse anche per questa ragione, fu particolarmente attento ai segnali che, volente o nolente, mandavo agli altri. Lei li seppe interpretare e seppe spingermi a cercare in me stesso le energie e le capacità sopite, fino a fare di me un ragazzo complessivamente sereno e uno studente capace e brillante.” Il sorriso aperto e sincero manifestava la sua immensa gratitudine.
“Grazie al Suo aiuto prezioso e al Suo zelo nell’insegnare, poi, gli anni del Gymnasium, che inizialmente ritenevo avrebbero rappresentato per me un percorso arduo e lungo, si susseguirono con straordinaria velocità e furono un crescendo di successi, che culminarono nell’Abitur[7], che superai con un ottimo voto.
Fu proprio quel giorno, ricordo bene, che nell’atrio vuoto della scuola Lei mi parlò come un padre affettuoso e attento e mi consigliò di proseguire gli studi per diventare notaio: questa sarebbe stata una professione adatta a me, che possedevo la capacità ereditata da mia madre di catalogare e ordinare.
Dovere lasciare Lei, Professore, fu un grande dolore, lo ammetto. In tanti anni di frequentazione, Lei era diventato qualcosa di più di un maestro: era il mio modello e, nello stesso tempo, il mio confidente e il padre che in quel periodo della mia vita era così assente, freddo nei miei confronti. Perciò conservai molto bene il ricordo della Sua personalità e feci in modo che Lei, in qualche modo, continuasse ad essermi vicino.” L’uomo restò silenzioso per alcuni istanti, come se volesse riassaporare il piacere di quell’antica amicizia e dell’intesa profonda che li aveva uniti in tempi passati. Ricominciò a parlare con rinnovato vigore.
“Feci tesoro dei Suoi consigli e, quanto prima, mi iscrissi all’Università. E così, dopo qualche mese, salivo con sicurezza le scale grandi e ampie della mia nuova scuola, osservando stupito e incuriosito i busti marmorei e le solenni iscrizioni che ornavano l’istituto.
In quegli istanti mi resi conto che ero molto cambiato da quando, entrando per la prima volta al Gymnasium, mi sentivo piccolo, impaurito da quel nuovo ambiente e insicuro delle mie capacità, di me stesso.” Ernst e il Professore si scambiarono un sorriso d’intesa. “In quel momento, invece, mi sentivo sereno e questo anche grazie a Lei.” E il sorriso di Ernst si fece più aperto, manifestando la profonda gratitudine che provava per quell’uomo, ormai anziano, ma sempre attento e pronto.
“Salita quella lunga scalinata, entrai senza esitazioni in una grande aula, presi posto e i miei studi universitari ebbero inizio. Quegli studi, però, pur essendo alquanto avvincenti, si rivelavano anche faticosi e pesanti; nel prosieguo degli anni molti miei compagni furono costretti a fermarsi, perché non riuscivano a tenere il passo. Io invece continuai il mio percorso, spinto dal desiderio di conseguire la laurea, raggiungendo il traguardo finale dei miei studi. Ma quella non era la mia unica motivazione: ero ormai adulto e sentivo il bisogno di legarmi sentimentalmente a qualcuno, avere una casa, magari dei figli e un impiego sicuro e redditizio.” Un lampo di delusione brillò negli occhi di Ernst, come se lui stesso volesse prendere le distanze dalle sue certezze di un tempo. Tuttavia continuò: “Per ottenere tutto questo mi impegnavo al massimo, passando giorni e giorni a testa china sui libri. I miei sforzi non furono però vani: grazie alla mia fermezza vinsi quella sfida che avevo raccolto iscrivendomi all’università e, finalmente, potei dedicarmi a tentare di realizzare anche i sogni più ambiziosi.
Innanzitutto decisi di andare a vivere da solo: mio padre finalmente aveva deciso di rifarsi una vita con una compagna più giovane di lui, che si chiamava Anne; sollevato da questa sua decisione, mi sentii finalmente libero di lasciare la casa che da sempre mi aveva portato tanti dolori” aggiunse con franchezza.
“Trovai un grande appartamento in centro: mi colpì subito il suo aspetto semplice e nel contempo elegante, la facciata austera, ma non per questo banale, le stanze disposte secondo un’asse di simmetria che divideva l’edificio in due parti perfettamente uguali.” Con le mani, Ernst sottolineava e spiegava la forma della costruzione. “Con i soldi che mi prestò mio padre la comprai, la arredai con mobili di gusto e ritratti di famiglia. Avevo finalmente un rifugio, un riparo dove sentirmi finalmente a casa mia, a mio agio con me stesso e i miei ricordi.
Iniziai a lavorare presso lo studio del notaio Reitsperger, uno dei più importanti della città. Il mio impegno negli studi e la stima di cui i docenti universitari mi onoravano mi avevano dato quella prima possibilità di entrare nel mondo del lavoro. Mi pareva che tutto stesse andando per il meglio: una casa nuova e una nuova carriera davanti a me. Eppure ancora la mia felicità non era completa.” E gli sfuggì un sospiro profondo, quasi un gemito di dolore, come se quello che stava raccontando fosse appena accaduto e tormentasse una ferita non ancora rimarginata.
“Che cosa mancava nella tua vita, perché tu fossi felice, Ernst?” chiese attento e premuroso il Professor Gottlieb.
“L’amore, credo, quel sentimento che può determinare la felicità di una persona, indipendentemente dai suoi successi professionali. Mi sentivo veramente solo, avevo paura che una persona come me, che aveva sofferto così tanto, non fosse più capace di amare.” Lo sguardo mesto e la voce cupa e pensosa lasciarono lo spazio ad una nuova allegria, espressa dagli occhi limpidi e sorridenti, che ora guardavano apertamente in volto il Professor Gottlieb. “Ma l’angoscia che questo dubbio mi spingeva a provare non mi afflisse per molto tempo. Presto accadde qualcosa che cambiò quello stato di cose!” raccontò Ernst in tono confidenziale. “Fui invitato a cena dal mio datore di lavoro, che desiderava approfondire la conoscenza con me e discutere di una pratica spinosa. E durante quella cena quel cortese signore mi presentò la sua famiglia e, fra tutti i presenti, mi colpì la sua giovane figlia, Petra. Oh, Professore, quanto era graziosa quella ragazza: i capelli castani raccolti morbidamente sulla nuca lasciavano intravedere il collo candido e sottile, i suoi grandi occhi cerulei mi scrutavano timidi ma curiosi. Le labbra, piccole e ben fatte, sorridevano soavemente, esprimendo tutta la dolcezza e la purezza che sembravano animarla.” Il volto dell’uomo rideva, gli occhi sembravano vedere ancora quei tratti amati, il movimento delle mani dava forma a quel viso caro: Ernst sembrava essere stato trasportato, come per incanto, in un altro tempo e in un altro luogo.
“Quella ragazza seppe smuovere il mio animo così razionale e introverso e mi conquistò con le sue maniere gentili. Per tutta la sera il padre parlò di lavoro e affari, ma io non facevo che guardare il suo volto e le mani di lei, delicate e così ben fatte, che, quando la osservavo o mi rivolgevo a lei, tormentavano il tovagliolo ricamato. Finita la cena, suo padre e io ci ritirammo nello studio, per parlare ancora. Quando finalmente mi accomiatai, Petra, porgendomi il cappotto rispose con un dolce sorriso alle mie parole di ringraziamento e, accompagnatomi alla porta, strinse la mia mano un po’ più a lungo di quanto sarebbe stato strettamente necessario. Quel tocco prolungato mi comunicò che anche lei provava per me un sentimento di affetto, se non già d’amore.” Sembrò che il corpo di Ernst fosse attraversato da una lieve scossa, come quella che il fugace contatto con la ragazza gli aveva trasmesso quella sera.
“Sorrido ancora pensando a quanto camminai quella sera per le strade deserte e buie della città, e come non riuscivo a calmarmi, posseduto da una gioia che mai avevo provato prima d’allora.”
Nel cielo le nuvole si erano diradate e la luce del sole rischiarò la stanza, filtrando attraverso le finestre. Un raggio di sole attraversava la lampada Tiffany sul tavolino fra le due poltrone e proiettava un caleidoscopio di colori sulla parete. Ernst si perse ad osservare quello spettacolo di luci, sorridendo incantato come un bambino. Un lieve e discreto colpo di tosse lo scosse dalle sue fantasie; riprese il filo del discorso.
“Il giorno dopo accadde qualcosa che mi stupì molto e mi riempì di felicità: lavoravo nel mio studio analizzando alcune pratiche, quando qualcuno bussò alla porta a vetri. Era Petra, che era venuta a trovare il padre con una scusa, per rivedermi e conversare brevemente con me. Questo suo atto di coraggio fu la prova che anche lei cominciava ad amarmi.” Ernst sorrise e si sedette più comodamente nella poltrona, appoggiandosi allo schienale, in una posa finalmente più rilassata.
“Continuai a frequentare casa Reitsperger; il padre, che già apprezzava il mio lavoro, cominciò a dimostrarsi affettuoso e quasi paterno con me, la moglie mi prese presto a benvolere, tanto da invitarmi spesso, anche in occasione di pranzi riservati alla famiglia. In quei mesi potei conoscere meglio Petra; non vi erano dubbi: era la donna che volevo sposare, la madre che desideravo per i miei figli. Pochi mesi dopo mi feci coraggio e chiesi al notaio Reitsperger la mano della figlia. Avevo aspettato perché temevo che le mie intenzioni potessero essere fraintese dai genitori di Petra: un giovane assunto da poco, che chiede di sposare la figlia del titolare dello studio, poteva essere scambiato con un profittatore, un cacciatore di dote. E questo mi frenava. Il padre di Petra, invece, mi abbracciò con slancio, dicendomi che già da tempo sperava che io avanzassi quella richiesta, perché vedeva in me il genero perfetto e il successore ideale cui affidare lo studio, una volta che avesse deciso di ritirarsi dal lavoro. Aggiunse però che desiderava chiedere alla moglie e a Petra il loro consenso, perché era persuaso che un impegno serio come il matrimonio richiedesse il favore di tutte le parti interessate: è giusto che i genitori valutino la serietà del futuro genero, come è doveroso che la moglie rispetti il marito, ma se ci sono anche affetto e stima, l’unione nasce sotto i migliori auspici. La signora Reitsperger e la figlia furono commosse fino alle lacrime dalla mia domanda di fidanzamento. E così Petra e io ci fidanzammo; mentre vivevamo questa tenera storia d’amore, programmavamo il nostro futuro insieme. Insomma, tutto procedeva per il meglio, fino a quando decisi che era il momento di farmi conoscere meglio dalla mia futura sposa. Le parlai di me, della mia infanzia, di mia madre scomparsa troppo presto e della strana eredità che mi lasciò alla sua morte. Non confessai tutto, sollevai solamente alcuni dei veli che occultavano il mio segreto.” Quest’ultima frase fu pronunciata velocemente, quasi sovrapponendo le parole, forse per il dolore che ancora suscitava in Ernst la fine del suo fidanzamento con Petra; sembrava però che volesse invece distogliere l’attenzione del suo paziente ascoltatore da quello che pure doveva essere un motivo importante. “Questo bastò ad allontanarla da me: vidi subito nei suoi occhi prima la perplessità, che ben presto si tramutò in disgusto. Ecco il sentimento che ora le suscitavo! Capii subito che aveva cessato di amarmi. Ella mi lasciò: non riusciva ad accettare una parte di me, quel lato oscuro che dall’infanzia mi segue come un’ombra e mi impedisce di vivere una vita normale. E quel segreto che cercai di condividere con Petra ora mi frena e mi impedisce di vivere e godere dell’amore di Claudia, la donna, di cui mi sono innamorato di recente.”
Ernst cessò di parlare di colpo e si nascose il volto fra le mani. Il Professor Gottlieb lo guardò preoccupato e incerto sul da farsi. Doveva chiedere all’uomo di spiegarsi meglio, di colmare quei vuoti che costellavano il suo racconto o doveva lasciargli il tempo di raggiungere lo stato d’animo necessario per aprirsi completamente, ma con serenità? Nei tratti di quell’uomo, adulto e serio, che già portava i primi segni dell’età che avanzava intravedeva ancora i lineamenti di quel ragazzo, poco più di un bambino, che tanti anni prima si era affidato a lui, in cerca di sostegno e affetto. Ernst gli parve ancora fragile e spaesato come allora. Gottlieb decise perciò di non incalzarlo con domande puntuali e pressanti e si dispose ad ascoltare ancora quello che il suo allievo si accingeva a narrare.
Lo invitò così a proseguire con un sorriso dolce e poche parole affettuose.
“Oremer Ernst majnß[8], che periodo buio devi avere vissuto! Un amore così bello fallito sì miseramente! No, non voglio farti rivivere quei momenti! Ma, dimmi: come sei riuscito a superare una fase tanto difficile?” Il Professore Gottlieb si avvicinò, con la poltrona, a Ernst e, allungatosi sopra il tavolino, afferrò con trasporto le mani dell’uomo.
“Grazie, Professore, Lei sa essere un uomo davvero sensibile e discreto!” E gli sorrise di rimando, stringendo le mani dell’amico. Rinfrancato, continuò: “Orbene, il mio unico rifugio fu il lavoro. Lei lo sa: io ho sempre studiato e lavorato con passione e impegno; le lunghe ore di studio, anche notturno, non mi hanno mai spaventato. Dopo la laurea mi ero dedicato alla professione di notaio, sia pure come giovane assistente. Per dimostrare le mie capacità, ma anche la mia buona volontà, avevo lavorato con grande impegno, conquistando così l’apprezzamento e la fiducia del notaio Reitsperger, presso il cui studio lavoravo, ma anche di altri suoi colleghi. Alcuni inviti a pranzo presso notabili di Vienna o gli inviti a teatro da parte di clienti dello studio dimostravano che io, Ernst Hirschfelder, cominciavo ad essere considerato, ad avere un ruolo sempre più importante nella nostra città. D’altronde, fin dai primi anni di lavoro, non mi erano mancate le offerte di lavoro da parte di altri studi notarili, ma io le avevo sempre rifiutate per senso di riconoscenza verso il mio primo datore di lavoro. La rottura del fidanzamento impose, in una certa maniera, una svolta sia nella mia vita personale sia in quella professionale. Non potevo continuare a lavorare con il padre della donna che avevo amato, e forse ancora amavo, né lui avrebbe potuto accettare questa situazione: la società dell’epoca, così attenta alla forma, non ammetteva che i rapporti fra il notaio Reitsperger e me rimanessero inalterati.” Ernst scosse la testa, dimostrando quanto poco condividesse il modo di pensare di taluni. “Sentivo poi che nella mia vita non c’era spazio né speranza per una storia d’amore e quindi l’unico campo in cui mi sentivo sicuro e a mio agio era il lavoro. Decisi quindi di aprire uno mio studio notarile, forte anche della fiducia di alcuni importanti clienti che mi onorarono della loro fiducia, affidandomi le loro pratiche, che d’altro canto avevo già seguito con loro piena soddisfazione.” La voce ferma e alta tradiva l’orgoglio di Ernst, consapevole delle sue capacità.
“Le lunghe giornate in ufficio con un continuo viavai di clienti, l’agenda sempre zeppa di impegni, le corse attraverso la città per incontrare altri colleghi non sono mai stati un vero fardello, ma hanno invece sempre rappresentato per me una fonte di gioia, soddisfazioni e, alcune volte, perché non ammetterlo, anche di divertimento. Riuscire a gestire grandi transazioni di denaro, affari da molte migliaia di scellini, eredità lucrosissime,” Ernst sorrise soddisfatto e compiaciuto, ma cercò al contempo di contenere il piacere che il lavoro e i riconoscimenti gli procuravano. Anche Gottlieb gli sorrise, lieto di condividere il successo del suo allievo, perché sentiva i risultati ottenuti da Ernst come, in parte, anche suoi “mi faceva e ancora oggi mi fa sentire importante all’interno della buona società viennese. Sono ben conscio delle mie capacità nel campo professionale, è insensato che sia scioccamente modesto: so come soddisfare al meglio le esigenze dei miei clienti; sono affidabile, puntuale, attento. Ho un controllo totale su tutto ciò che riguarda la mia vita lavorativa e la mia professionalità viene riconosciuta da tutti, amici e avversari.
Ma non devo divagare! Torniamo a quell’epoca! Fu proprio in quegli anni che, proprio grazie al lavoro, riuscii ad incrementare di anno in anno le mie conoscenze nella cerchia dell’aristocrazia e dell’alta borghesia viennese.”
Ernst continuò a narrare, a capo eretto e con sguardo fiero.
“Questo mi permise anche di partecipare a serate di gala, a concerti, a riunioni in presenza anche delle più alte cariche dello Stato; il prestigio, la stima, il successo, i guadagni crescevano e costituivano sempre più le basi di tutta la mia vita e di tutta la mia felicità, se così posso definirla.
Ricordo ancora, con un misto di orgoglio e rimpianto, la sera in cui feci un ingresso quasi trionfale alla Staatsoper. Avevo ventotto anni, il mio studio era aperto solo da un paio d’anni e per la prima volta venivo invitato nel palco della famiglia Zweig, una ricca e colta famiglia viennese ebrea, che si era rivolta a me perché mi occupassi dei suoi affari. Quella sera assistemmo al “Don Giovanni” di Mozart; in sala erano presenti molti dei miei colleghi più importanti e in vista, tutti ormai di una certa età. Io ero l’unico giovane professionista presente. Inizialmente non mi sentivo a mio agio, pensavo di essere estraneo e inviso agli altri: io, così giovane, così poco rispettoso di alcune regole del bel mondo viennese, così arrogante e ingrato da avere aperto un mio studio, che mi poneva in aperta concorrenza con la casta chiusa e altera dei notai.” E qui sorrise di sé, cogliendo la contraddizione fra ciò che diceva e ciò che era anch’egli. “Parlando con gli altri invitati, però, via via mi sentii più tranquillo. Esponevo ciò che sapevo dell’opera cui avremmo assistito, del periodo in cui fu composta, della vita fra il gioioso e il tormentato di Mozart; questo saggio di cultura musicale, tutta merito di mia madre, incantava gli altri invitati che mi ascoltavano in silenzio. Anche quando poi, dopo l’opera - tra l’altro fu un’esecuzione veramente memorabile - uscimmo a cena, gli altri convitati continuavano a guardarmi stupiti, come incantati. Il massimo del successo arrivò quando esposi una teoria che avevo sviluppato per incrementare il successo dello studio per cui lavoravo; gli astanti capivano che le mie abilità erano indubbie anche in campo professionale.
Da quella sera in poi la mia vita cambiò radicalmente e, anche se mi è doloroso dirlo, temo cambiò in peggio.” Cercò con gli occhi l’approvazione di Gottlieb, ma il Professore lo guardò con sguardo interrogativo, non capendo ancora appieno il senso di ciò che Ernst affermava. “Ero orgoglioso di quello che avevo saputo dimostrare; in quel momento mi sentivo realizzato, sentivo di aver raggiunto quello che volevo, sentivo di avere tutto ciò di cui potevo aver bisogno. Se prima, però, ho parlato anche di rimpianto è perché capisco, e forse lo intuii già allora, che quella sera avevo deciso di dedicare tutto me stesso al lavoro, alla vita esteriore, all’apparenza, rinunciando però agli affetti e ai rapporti umani scevri di interessi professionali, economici o di prestigio personale.” Scosse la testa, sottolineando in questo modo quanto considerasse sciocco e effimero ciò che aveva costruito.
“Con il passare degli anni e grazie ai buoni rapporti” e qui il tono si fece ironico “con la crème della società viennese, gli incarichi diventavano sempre più importanti e consistenti e così spesso rimanevo in ufficio anche una dozzina di ore, talvolta fino a tarda notte, e, ciò nonostante, mi sentivo sempre rilassato, riposato, apparentemente sereno. Agli occhi di tutti un uomo di successo.
Solo da poco ho capito che in realtà si trattava di sensazioni falsate, che servivano solo a nascondere le falle che si erano aperte nella diga della mia inappuntabile professionalità e che da allora si sono allargate. Inconsciamente ricacciavo ogni mia altra necessità negli angoli più remoti del mio cervello, per evitare di vederla e, quindi, di sentirne la mancanza. Quello che invece avevo davanti agli occhi, la realtà di tutti i giorni, mi toccava da vicino, vi ero completamente immerso e forse bastava questo a rendermela familiare e a darmi soddisfazioni.”
“In effetti” intervenne Gottlieb, che fino a quel momento aveva lasciato Ernst libero di raccontare “la tua fama, la tua sicurezza, la tua posizione sociale ed economica mi portavano a credere che ti sentissi un uomo soddisfatto di sé e realizzato, wi a fisch in waßer[9]. E ne ero felice, naturalmente, perché pensavo che avessi ottenuto quello che volevi e meritavi. Come ti ho già detto, in questi anni ho continuato a seguire la tua vita, perché era un modo per starti ancora vicino, per condividere le tue gioie e i tuoi ottimi risultati, ma anche per esserti accanto, se tu mai avessi conosciuto di nuovo momenti difficili. ” E gli sorrise, per dimostragli ancora una volta la sua disponibilità.
Ernst interruppe Gottlieb in modo quasi brusco, come se le parole di lode dell’insegnante lo infastidissero. Aveva appena confessato di avere speso la sua vita, fino ad allora, a costruirsi una solida posizione professionale ed economica, ma aveva ammesso che le sue conquiste gli apparivano ormai futili e vuote! Anche il Professore, solitamente così sensibile e attento, sembrava invece ammirare i suoi successi, come se non capisse che il suo allievo di un tempo viveva solo di apparenza, come un bell’involucro vuoto! Avvertì però subito che il suo giudizio era troppo severo: Gottlieb gli stava offrendo il suo aiuto e voleva dimostragli, ancora una volta, affetto e stima, senza esprimere pareri e senza pressarlo con domande incalzanti. Con il suo calore, i suoi interventi pacati e la sua bonomia cercava anzi di arginare e incanalare il fiume tumultuoso di parole e sentimenti di Ernst e lo guidava dolcemente alla meta: confessare e confessarsi la verità, così a lungo celata. Il notaio cercò allora lo sguardo del vecchio uomo e si scusò, sorridendogli mestamente; poi riprese a parlare.
“Ed è proprio per questo che oggi sono qui, Professor Gottlieb! Come ha sottolineato anche Lei, gli affari procedono al meglio: lavoro, amicizie influenti, viaggi, concerti e balli non mi fanno difetto. Ma tutto questo non basta a farmi vivere serenamente: ormai da tempo ho capito che il lavoro e le soddisfazioni professionali non potranno mai sostituire il calore umano di un amico sincero e disinteressato o l’affetto di una compagna. Gli impegni possono solo allontanarli e farli dimenticare, illudendoci di poterne fare a meno, ma prima o poi il bisogno istintivo di stabilire rapporti profondi con altre persone risale sempre a galla. L’uomo è un animale socievole, e io, come tale, non posso sopportare il dovermi aggirare per la mia abitazione deserta e silenziosa e accorgermi ogni volta di essere da solo, accompagnato unicamente dai miei fantasmi. Ho bisogno, insomma, di riempire gli spazi vuoti della mia vita.”
Ernst abbassò lo sguardo, arrossì leggermente e continuò, rapito.
“Pochi mesi fa ho assunto una nuova segretaria, che mi era stata raccomandata da un’amica comune. Claudia, così si chiama questa giovane donna, ha vissuto una vita intensa, che l’ha portata a Vienna tre anni fa. Lei è italiana, di madre austriaca e parla perfettamente tedesco e italiano. Si è dimostrata subito una collaboratrice preziosa: attenta, scrupolosa, preparata, ma anche capace di intuizioni e trovate che ne dimostrano la fantasia persino in un lavoro ripetitivo e rigoroso come il mio. La sua conoscenza della nostra cultura, ma anche di quella italiana, e dei nostri due paesi mi è stata più volte di grande aiuto nel seguire alcune pratiche di clienti che hanno interessi in Italia.
Ma non è certo solo questo che me la rende così cara!” e il viso dell’uomo lasciò capire che non era il notaio Hirschfelder a parlare di una brava segretaria, ma che Ernst, l’uomo provato e vulnerabile, provava per lei sentimenti di tutt’altro tipo. “Claudia mi ha fatto l’onore” pronunciò questa parola con grande serietà ”di rivelarmi il suo passato, difficile e avventuroso insieme. Quando aveva vent’anni – viveva allora a Venezia - si innamorò di un giovane nobile, ma squattrinato; decisero di sposarsi e la famiglia di lui accolse Claudia con una certa freddezza, dovuta alle sue origini borghesi. La ricca dote che avrebbe portato con sé, tuttavia, li rendeva meno apertamente ostili nei suoi confronti. Il padre di lei era contrario alle nozze e, una volta che i due ragazzi furono sposati, si rifiutò di dare alla figlia ciò che le aveva promesso e le doveva. Non per questo diminuì l’amore di Antonio, il giovane sposo, per Claudia; lei d’altro canto è una donna bella, affascinante, colta e volitiva, da cui è difficile non essere attratti. I due innamorati vissero tre anni difficili, dal punto di vista economico, ma pieni e intensi, che furono bruscamente interrotti dalla morte di Antonio, affetto da tubercolosi.” Gli occhi di Ernst manifestavano il dolore che le sofferenze di lei avevano suscitato anche il lui. Chi meglio di lui, d’altro canto, poteva capire che cosa significasse una separazione tanto definitiva!
“Questo lutto colpì profondamente Claudia, ma non le tolse la voglia di vivere; il marito, prima di morire, le aveva fatto promettere che sarebbe vissuta anche per lui e lei, sia pure con difficoltà, cercava di mantenere la promessa fatta. La famiglia di lui però decise altrimenti: accolse la giovane vedova in casa, poiché consideravano sconveniente che la donna che portava il nome del loro figlio defunto vivesse sola, uscisse per strada non accompagnata e, addirittura, andasse a lavorare.” Ernst sorrise amaramente, pensando alla mentalità chiusa di quelle persone che avevano fatto soffrire la sua amata.
“ Claudia fu costretta a portare il lutto stretto e a rivivere continuamente e in modo morboso i ricordi del suo breve matrimonio, perché i suoceri le chiedevano continuamente di ricordare e raccontare, senza lasciarle il modo di elaborare la morte del suo Antonio, fino ad accettare con maggiore serenità un evento tanto tragico. Chiusa nella prigione che i suoceri avevano costruito intorno a lei, Claudia si sentiva morire e soffocare, né poteva contare sull’aiuto del padre.
Spinta dal desiderio di libertà e dall’anelito alla vita e forte di una piccola eredità lasciatale dalla nonna materna, fuggì dall’Italia e si rifugiò a Vienna, nel piccolo appartamento che le apparteneva.”
Dalla casa accanto giungevano le note di una sonata di Beethoven. Un pianista eseguiva con passione e trasporto “Das Wiedersehen”[10], dalla sonata 81a: l’alternanza di frasi intense e altre più lievi accompagnava in modo calzante i momenti di gioia e di sconforto del racconto di Ernst.
“La nostra città, che sta vivendo così grandi cambiamenti in ogni campo, è stata per lei un balsamo che le ha ridato completamente la forza di vivere e di pensare al futuro.
Claudia mi ha raccontato, con timidezza e sfrontatezza insieme, di avere lavorato come modella per Schiele[11] e, in effetti, è perfettamente riconoscibile in alcuni disegni di questo pittore; è stata anche cameriera in un Caffè, dove ha conosciuto la nostra comune amica, che l’ha voluta, dimostrando una certa audacia per il nostro ambiente, come istitutrice dei suoi figli.”
Il Professore Gottlieb intervenne: “Una donna certamente insolita Ernst, ma …”
“Una donna assolutamente unica, Professore!” lo interruppe Ernst. “E, d’altra parte, non potrebbe essere altrimenti. Dopo tanti anni passati da solo, pensando solamente al lavoro, solo una donna eccezionale avrebbe potuto risvegliare in me il bisogno di amare! In questi anni non mi sarebbe mancata la possibilità di sposare giovani donne, “oneste e timorate di Dio” come si suol dire, di buona famiglia,” Ernst arricciò il naso con un malcelato disprezzo per questa prospettiva “che avrebbero potuto sicuramente accudirmi, come alcuni mariti chiedono alle loro devote spose, forse amarmi, di certo migliorare vieppiù la mia posizione sociale. Un buon nome unito ad un consistente patrimonio può fare miracoli!” disse con enfasi eccessiva, che rivelava un’amara ironia. “Ma non è certo quello che cercavo; in verità, io avevo rinunciato all’amore eppure, sebbene non lo cercassi, ne sono stato colpito! Claudia rappresenta la forza di rischiare, di combattere per sé e per gli altri, di vivere con passione e trasporto. Tanto lei è impetuosa, quanto io sono frenato e controllato. Lei incarna le doti complementari alle mie, è la metà che manca alla mia vita!” affermò con foga.
“Sì, questo è certo, mio caro, come è certo che tu sei affascinato, anzi meglio, innamorato di lei. Si vede da come ne parli, dal sorriso che non riesci a frenare, dalla luce che brilla nei tuoi occhi, dall’entusiasmo che lei ti ha saputo trasmettere.”
Gli occhi di Gottlieb brillavano a loro volta di gioia e partecipazione. “Anche Claudia rappresenta per te un balsamo e il fatto che ti abbia informato del suo passato dimostra che lei si fida di te e, al contempo, ti stima e ti considera un uomo capace di accettare una vita, absit iniuria verbis, che alcuni potrebbero giudicare immorale. Tuttavia, come puoi sapere se anche lei ti ama?”
“Anche in questo caso si è comportata in modo non convenzionale! Vede, Professore: io mi sono accorto di amarla poco tempo dopo averla conosciuta. Le mie paure legate al passato, il fatto di essere il suo superiore, ma anche la mia posizione non mi permettevano certo di confessarle il mio sentimento; non le nascondo che anche la differenza di età mi crea qualche perplessità. Claudia però, pur così giovane, si dimostra molto spesso più saggia e adulta delle sue coetanee e anche delle donne più vecchie, forse proprio perché nella sua vita ha amato e sofferto molto, ma – per amore – ha saputo rischiare anche molto, mettendosi in gioco, senza lasciare che la vita scorresse su di lei senza lasciare tracce. Ebbene, Claudia riesce a mantenersi fresca, serena, giovane, ma allo stesso tempo sa essere decisa, quasi come un uomo. E questo, in una donna bella come lei, è particolarmente attraente.” Gli occhi di Ernst scintillavano di passione.
“Come le ho detto, Claudia mi ha saputo aiutare nel lavoro, ma in questo campo ha anche preso iniziative che si sono dimostrate vincenti. Non riconosce la gerarchia e, a volte, mi impone delle scelte, convincendomi con lunghi discorsi della bontà delle sue idee.” E sorrise orgoglioso della caparbietà di lei e della sua capacità di uscire vincente dalle discussioni.
“Per me è davvero piacevole confrontarmi con lei, dibattere da pari a pari e anche essere guidato dalla sua logica lungo strade nuove e inesplorate. Lei è riuscita ad annullare ogni differenza fra di noi.” Il suo entusiasmo si stemperò in un’improvvisa dolcezza. “E proprio per questo suo modo di ragionare ed essere ha dichiarato di amarmi: mi ha confessato che di me ama in particolare la corazza dura e rigida che indosso, ma che nasconde un uomo fragile, curioso e ricco di chissà quali misteri. Mi considera un fiume sotterraneo, che scava silenzioso il terreno sovrastante. “Chissà che cosa fuoriuscirà, quando si aprirà la voragine!” mi ha detto un giorno, sorridendo maliziosa e complice.” Intanto mimava le espressioni del volto di lei.
“E quindi ha aggiunto: ”Ernst, ho il sospetto che anche tu abbia una doppia vita, come me: di giorno impiegata modello di uno degli studi notarili più importanti di Vienna, di sera modella di un pittore geniale, ma da alcuni considerato campione di immoralità! E tu, mio caro, che cosa nascondi?” mi ha chiesto, con la sua consueta allegria.” L’uomo si beava della complicità che lo legava alla donna amata.
“Ernst caro,” intervenne il Professor Gottlieb “tu ami questa donna e lei ama te. Entrambi conoscete la vita dell’altro, anche gli inevitabili difetti! Che cosa ti impedisce allora di vivere con gioia e passione questa nuova fase della tua vita? O forse ti frena il giudizio che gli altri potranno esprimere?”
“No, Professore, questo no, glielo assicuro!” Ernst scosse la testa con decisione. “D’altra parte, se anche non riesco più a essere orgoglioso dei miei successi professionali e a considerarli appaganti, la posizione che ho raggiunto con il mio impegno” questa volta parve intimamente compiaciuto di quanto aveva ottenuto nella vita lavorativa “mi dà quanto meno il vantaggio di potere agire e scegliere con una certa libertà, sicuro che la buona società viennese, una volta superato lo scandalo iniziale e i pettegolezzi, saprà accettare Claudia come la moglie del notaio Hirschfelder, degna della stima e dell’ammirazione che merita.”
“Bene, se non si tratta nemmeno di questo, esiste forse davvero qualche cosa nel tuo passato, che potrebbe rappresentare per Claudia un impedimento? Non credo che, ai suoi occhi, il tuo amore per Petra possa essere un ostacolo: una donna che ha amato tanto intensamente quanto lei non può essere gelosa del passato di un uomo.” Il Professore osservava con attenzione il volto di Ernst, per comprendere meglio che cosa il suo ex allievo volesse veramente esprimere, al di là di quanto aveva detto.
Proseguì incalzante: “E poi, da come me l’hai descritta, Claudia è una donna fuori del comune, che non ragiona in modo gretto e borghese come tanti altri. Allora, forse, sei tu che non hai saputo accettare il fatto di essere abbandonato prima da tua madre, che ti ha lasciato – suo malgrado - nonostante l’amore che nutrivi per lei e poi da Petra, che anche tu riamavi. Forse che per te l’amore è sempre legato all’abbandono?”
“No, Professore, la verità è che io …” Ernst era passato dallo stato di esaltazione con cui aveva descritto le doti di Claudia a un atteggiamento cupo, timoroso e reticente. Prima stava seduto ben eretto sulla poltrona, il capo diritto e lo sguardo appassionato e diretto, ora si era come afflosciato, le spalle curve, la testa china e lo sguardo sfuggente.
“Gott majner[12]! Perché mai, allora, continui a pensare al passato e credi che Claudia si comporterà come Petra?” chiese Gottlieb in modo perentorio.
Ernst si agitò sulla poltrona, tormentandosi le mani e sospirando. “Professor Gottlieb, se Lei potesse sapere come sono ancora vivi in me i ricordi. La ferita di allora mi tormenta oggi come vent’anni fa! Non è allora comprensibile che io mi senta incerto e quasi impaurito di fronte ad una situazione già vissuta, come se tutto quello che ho provato potesse ritornare!” I suoi occhi mendicavano ora compassione.
“Ti capisco, non credere il contrario!” rispose Gottlieb con tono più indulgente. “Per quanti sforzi facciamo, spesso i ricordi più dolorosi emergono con una forza e un’intensità dirompenti e rischiano di far vacillare e crollare miseramente tutto il nostro mondo, il nostro equilibrio conquistato a fatica. Eppure è bene ricordare ed è meglio affrontare i problemi, piuttosto che sfuggirli!”
“Fuggire, Professore? Oh, se solo fosse possibile! Ma tutto mi lega al passato. Il passato per me è vivo, tangibile, presente come l’oggi!” La voce di Ernst tremava.
“Non ti capisco, Ernst! Ti prego, spiegati! Forse tu dubiti dei sentimenti di Claudia verso di te o, ancor peggio, sei tu a non sapere bene che cosa vuoi veramente? Per quali motivi, però?” chiese Gottlieb con sguardo quasi severo; poi si addolcì: “Quando mi hai parlato del tuo fidanzamento con Petra e della fine del vostro rapporto, ho visto che ne soffrivi troppo e in modo troppo vivo, per cui non ho voluto domandartene le vere ragioni.” Da accomodante che era il tono si fece di nuovo fermo: “Ma, Ernst, ora sei un uomo adulto e razionale, un uomo che agli altri appare risoluto e di successo; eppure davanti a questo nuovo amore e davanti ai ricordi del passato tremi e ti mostri titubante come un adolescente. Lungi da me la volontà di ferirti! Tuttavia devo ricordarti che hai chiesto tu di parlare con me e io sono lieto di ascoltarti e di sostenerti, se è questo che mi chiedi. Eppure sono convinto che tu mi debba delle spiegazioni più chiare. O meglio, è un dovere che hai verso te stesso: è tempo che tu trovi la forza di uscire dal tuo guscio, di confidarti, di aprirti ad un amico, di chiedere il suo aiuto e di ammettere che anche il “grande” notaio Hirschfelder può essere debole forse, ma più umano!” Gottlieb guardò con insistenza Ernst negli occhi, senza lasciargli respiro.
“Certo, Lei mi esorta a liberarmi della mia corazza, a sacrificare l’immagine che di me offro all’esterno, ma non sa che questo di cui mi parla per me ha in realtà un significato molto diverso, molto più reale!” Il suo viso espresse un muto rimprovero, da bambino ferito. “Lei sottolinea che potrei sembrare” qui, dopo una breve pausa, il tono si fece più ironico "più “umano”, perché ignora che nella mia vita, ormai da quasi quarant’anni, la normalità, l’umanità non esistono più: se ne sono andati insieme con mia madre.” Queste parole furono quasi gridate, con dolore. Calò il silenzio.
Il Professor Gottlieb fissava con sguardo interrogativo il volto di Ernst, che invece guardava nel vuoto, come sospeso nel tempo e nello spazio; questi era conscio che entro breve avrebbe dato una svolta decisiva alla sua vita e Gottlieb percepiva questo mare di dubbi e incertezze da cui, tutto in una volta, il suo caro ex allievo cercava di emergere. Ebbe l’impulso di fermare Ernst, onde evitargli questo grande sacrificio e una tanto dolorosa confessione; sapeva anche però che così non l’avrebbe aiutato, ma avrebbe solo prolungato il suo isolamento. Quindi tacque e ascoltò.
“Ogni giorno, mio caro Gottlieb, ognuno di noi cambia un po’, non coincide più con la persona che era il giorno precedente” esordì Ernst con un filo di voce. “Ogni esperienza, ogni dolore, ogni gioia mutano ogni uomo in modo magari impercettibile, ma spesso irreversibile. Nel mio caso, in particolare, la morte di mia madre ha lasciato una ferita molto profonda, dolorosa e mai guarita.” Il volto esprimeva la sofferenza indicibile. “Ma non ha intaccato solo la mia anima, la mia mente, ma anche il mio corpo. Non ne so dare una spiegazione logica, razionale – in tutta questa vicenda i normali canoni della ragione svaniscono – ma grazie a quel dolore sono uscito repentinamente dal mio stato di bambino per adeguarmi ogni giorno al mio nuovo Io.” Si fermò un attimo per cercare le parole più adatte. Continuò il racconto con voce dolce, che dimostrava la compassione che il bambino che era stato suscitava in lui, adulto.
“La notte che seguì alla morte di mia madre fu per me molto difficile e lunga. Zia Grete, la sorella della mamma, mi accompagnò a letto, mi rimboccò le coperte e stette accanto a me, accarezzandomi delicatamente la fronte, tentando di calmare il mio pianto e cercando di consolarmi con dolci parole. Il suono delicato della sua voce a poco a poco si trasformò in una lenta cantilena che giungeva sempre più fioca alle mie orecchie e io mi addormentai. Il sonno fu agitato: mi muovevo in continuazione, sentivo uno strano fastidio alla pelle, come se prudesse; sentivo le lenzuola avvoltolate dal mio incessante movimento pungermi e stringermi. Mi svegliai più volte di soprassalto, sperando che la morte della mamma fosse solo un incubo, ma ogni volta ricadevo di nuovo nello sconforto della realtà. Ero solo nella mia cameretta, ma sentivo vicino a me una presenza nuova, ad un tempo familiare e inquietante.” I suoi occhi erano gli stessi, smarriti e sgranati, di quella lontana notte.
“La mattina seguente, sceso dal letto, vidi qualcosa di incredibile, di apparentemente sovrannaturale: sul lato sinistro del letto era morbidamente steso un essere, privo di consistenza e come vuoto al suo interno. Sembrava essere uno dei tanti incubi che avevo vissuto nella notte, ma le sensazioni che percepivo avevano un che di più reale. Così schiusi titubante la porta della mia cameretta, uscii in corridoio e in punta di piedi raggiunsi zia Grete, che, sveglia da diverso tempo, era già vestita di tutto punto.” Ernst cominciò a parlare più rapidamente, con tono più concitato. “Le chiesi di seguirmi, senza darle ulteriori spiegazioni, che forse non avrei nemmeno saputo fornirle, temendo anche che mi considerasse folle o che attribuisse il mio racconto alle paure che inevitabilmente la morte di mia madre aveva scatenato in me. La zia si alzò, mi prese per mano e mi seguì fino nella mia camera; dalla porta socchiusa filtrava una luce calda e intensa. Le strinsi più forte la mano e, preso coraggio, la feci entrare. Il sole dell’alba, che traspariva dalle tende ancora accostate, illuminava la strana cosa distesa sul mio letto, che a me continuava a suscitare un senso di repulsione e attrazione.” Ernst rabbrividì di nuovo. “Zia Grete, con un sorriso dolce sulle sue sottili labbra, si dimostrò invece affatto distesa e serena; mi rassicurò, con parole amabili e semplici, spiegandomi che quella pelle non rappresentava altro che un ricordo del passato, come una vecchia foto o un fiore essiccato. Potevamo considerare quel mio involucro abbandonato sul letto come un dono della mamma - disse - un modo per ricordarla, per sentire ancora sulla pelle gli ultimi baci e carezze che mi aveva dato prima di spegnersi.” Sorrise commosso a questo ricordo. “Le parole della zia ebbero l’effetto voluto: anch’io mi tranquillizzai e mi avvicinai di più per vedere da vicino la mia vecchia pelle. Con grande stupore vidi che quell’inquietante essere ero io, ma privo di ogni consistenza, di ogni struttura solida che ne sostenesse il corpo.” Le mani si muovevano nell’aria, come se stringessero una cosa soffice. “Di me era rimasto solo l’involucro, una pelle liscia, abbastanza sottile, ma resistente. Cominciai a tastarmi convulsamente in ogni parte del corpo per controllare di essere tutto intero e soprattutto di vivere un’esperienza reale.” Ripeté febbrilmente i gesti di allora.
“Non può immaginarsi che sollievo fu poter constatare che tutto era normale, ad eccezione di quella misteriosa pelle che languiva sul mio letto. Una volta compreso che però non si trattava di nulla di pericoloso né che mi avrebbe potuto danneggiare, cominciai ad analizzarla minuziosamente in ogni sua parte, ad accarezzarla, ad annusarla, per cercare di scoprirne ogni caratteristica. La strinsi a me e poi… No, no, non è ancora tempo! Più avanti, forse… a tempo debito…”
Scosse la testa e alzò le mani ad allontanare un fantasma che solo lui poteva vedere; strinse per un attimo gli occhi spaventati, quindi li riaprì deciso a continuare il racconto, senza concedersi divagazioni dalla linea che si era preposto.
“La consistenza era - per così dire – eterea, impalpabile, ma la pelle era vellutata, morbida al tatto, persino profumata e in uno stato di perfetta integrità, se non sul lato sinistro, sul quale presentava una lunga apertura, dai margini netti e puliti. La parte che prima copriva la testa era anch’essa vuota, ma per nulla cadente, corrugata o rovinata. Aveva quasi l’aspetto di una maschera, come di cera, perfettamente adattabile alla misura del mio volto. Tutta quanta la pelle era abbastanza elastica e resistente alla trazione, ma se rilasciata tornava alle sue dimensioni di partenza.” Il suo distacco quasi scientifico, il modo preciso e puntuale di descrivere questo fenomeno tanto inquietante lasciarono stupito Gottlieb. Ernst dimostrava invece una sorprendente tranquillità e la sua voce lasciava trasparire l’affetto che ormai lo legava a questa bizzarria. Infatti proseguì senza lasciare trasparire emozione:
“Superato l’impatto con la novità, rimase il dubbio su che cosa farne. In un certo senso, però, come aveva detto la zia, era una delle ultime testimonianze della presenza di mia madre. D’accordo con zia Grete, che subito si disse disponibile ad aiutarmi nell’opera di conservazione, decisi di mettere da parte questo particolare abito nel mio armadio, appendendolo come un qualsiasi cappotto ad una gruccia. Quel giorno ebbe inizio la mia enorme e laboriosa collezione, della quale dentro di me sono sempre andato fiero, ma che molto spesso, anche in questo periodo, rappresenta un ostacolo al tentativo di creare una normale rete di affetti con gli altri.”
Ernst guardò apertamente Gottlieb negli occhi e con voce ferma dichiarò:
“Ecco, Professore, questo è il segreto che per tanti anni ho gelosamente custodito e condiviso solo con zia Grete. Nemmeno mio padre ne è a conoscenza, non ne seppe nulla negli anni in cui continuammo a vivere insieme, come due estranei, né quando poi decise di risposarsi. Ho provato a condividere il mio segreto con Petra, ma lei si allontanò da me con repulsione, quando cercai di dirle la verità. Il suo sguardo disgustato, il modo repentino con cui lasciò le mie mani che stringevano le sue e le poche parole fredde che pronunciò mi fecero capire che lei non mi amava più e che d’allora in poi avrei condotto una vita solitaria. Da solo avrei potuto continuare invece a collezionare i miei ricordi.” Ernst abbassò gli occhi e strinse la testa fra le spalle, come se aspettasse di ricevere un colpo. “Ma ora La prego, Professore, mi dica qualcosa! Non mi importa se è disgustato o terrorizzato, sia pure sincero! Mi dia il suo parere sul da farsi e su che effetto può provocare una rivelazione di questo genere su un ascoltatore esterno alla mia vita privata, quale è Lei.” Si sporse dalla poltrona e afferrò le mani di Gottlieb, guardandolo supplice.
Il Professore, meditabondo, non sfuggì alla sua stretta. Sviò solo per un momento lo sguardo e si mise a osservare il ritratto giovanile di sua moglie Helga, morta meno di un anno prima, cercando nel frattempo le parole giuste, poi parlò: “Certo, mio caro, anch’io faccio una gran fatica a credere a quello che poc’anzi mi hai narrato, ma non posso in alcun modo giudicare una cosa su cui non ho alcuna influenza, che affonda le sue radici in qualcosa che un essere umano come me e te non può, e forse non deve comprendere. È probabile che, come tutto quello che è estraneo alla nostra vita di tutti i giorni, anche questa tua particolare realtà incuta negli altri un certo timore, ma allo stesso tempo non può non suscitare anche molta curiosità.” Sorrise rassicurante. “Dal mio punto di vista, quindi, non avrei grandi difficoltà ad accettare questa strana collezione, perché trovo che in fondo sarebbe un po’ come accettare una parte importante di te, una parte che ti completa. In questa tua descrizione, però, trovo che manchino alcuni dettagli, che vorrei mi chiarissi – naturalmente se te la senti di parlarne ancora.” Il suo sguardo ora brillava per la curiosità che aveva suscitato la descrizione – inevitabilmente breve e lacunosa – di quella bizzarra raccolta.
Ernst assunse un’aria sollevata, distesa, rinfrancata, come se si fosse liberato di un fardello troppo pesante da sorreggere da solo. Sorrideva timidamente al suo insegnante, guardandolo con un’aria amichevole e tenendo la testa leggermente inclinata da un lato. Alla richiesta di Gottlieb, annuì come in uno stato di estasi, in cui avrebbe continuato a parlare anche per ore, sull’onda dell’entusiasmo e della gioia di scoprire che poteva dividere con un altro uomo il suo segreto, ma anche con lo spirito del collezionista, che può esibire agli altri i suoi tesori.
“Bene” chiese Gottlieb “vorrei capire meglio, ad esempio, dove e come conservi tutte queste pelli, che - se i miei conti non sono errati - dovrebbero essere ormai quasi quattordicimila. Come hai fatto a catalogarle tutte, per non confonderle l’una con l’altra e soprattutto qual è la loro funzione?”
“Caro Professore, poiché conosco bene la Sua appassionata curiosità intellettuale e la Sua inestinguibile voglia di conoscere,” i due uomini si scambiarono un’occhiata d’intesa “ero quasi certo che mi avrebbe posto queste domande. Lei è dotato, come me, di una mente razionale, logica e analitica; capisco pertanto il Suo stupore di fronte alla vastità della collezione e al modo di organizzarla e catalogarla. Devo premettere innanzitutto che per conservare i singoli pezzi non sono necessari né temperature particolari né specifici livelli di umidità; e questo facilita non poco il compito, che però di anno in anno diventa ugualmente sempre più arduo. La mia nuova casa in Stuben-Ring è piuttosto grande, anche se ci vivo da solo, ma gran parte degli spazi è proprio destinata alla mia collezione.
Come Le ho già confidato, ogni mattina, al mio risveglio, raccolgo la pelle del giorno precedente; l’operazione è ormai divenuta un rito piacevole e così familiare da rasserenarmi. Non le nascondo che passo alcuni minuti ad osservare con tenerezza e a toccare delicatamente, con affetto, il mio “io” di ieri. D’altro canto, rappresenta pur sempre una parte di me! I minuti che passo guardando al mio recente passato e riflettendo su di esso rappresentano una sorta di bilancio del giorno trascorso e mi permettono di affrontare con spirito sereno la nuova giornata: posso riflettere sugli avvenimenti che hanno avuto maggior peso nella giornata appena trascorsa, posso riassaporare le gioie provate, ma anche ripensare agli errori commessi. Mi piace osservare i miei cambiamenti, come quando, guardandosi allo specchio, si osservano le rughe del volto, che testimoniano in modo indelebile quello che abbiamo vissuto.” Ernst seguì con le dita i lineamenti del suo volto, soffermandosi sulle profonde rughe della fronte. “L’idea della continua metamorfosi mi dà un impulso a vivere con rinnovata energia il giorno che sto per affrontare; non Le nascondo, poi, che ho provato a cambiare comportamento, anche se per un giorno soltanto, per vedere come questo si rifletta sulla mia pelle. Osservando la mia collezione, posso vedere quanto ogni giornata, anche quella a prima vista più banale, trascorra lasciando un segno, anche piccolo, dentro di me.
Trascorsi questi pochi attimi di riflessione, passo alla classificazione e alla conservazione della pelle. Bene, innanzitutto deve sapere che ho chiesto ai Fratelli Thonet[13] di fabbricare delle grucce in legno di faggio, che ho disegnato io stesso, curando forma e struttura in modo che fossero adatte a sostenere il peso della pelle. Prendo dunque una di queste grucce, liscio la pelle, eliminando ogni grinza, e la poggio a cavallo dell’ometto, in modo che la piega coincida con la vita.” Intanto esemplificava anche con le mani questi strani gesti che però facevano ormai parte della sua vita quotidiana. “A questo punto appendo al gancio superiore anche un cartellino su cui trascrivo la data del giorno precedente.
Non tutte le giornate sono però uguali e lo stesso dicasi dei ricordi! Sul cartellino riporto anche un breve giudizio sul giorno in questione, espresso con le lettere corrispondenti al sistema di votazione scolastica. Controllo ancora una volta che la pelle sia in ordine e che il cartellino riporti tutti i dati, quindi la ripongo in una delle stanze dell’appartamento. L’ordine con cui le pelli vengono conservate è cronologico, ma esiste anche una suddivisione in base alla “qualità” della giornata: le varie camere accolgono una le pelli delle giornate felici e pienamente soddisfacenti, un’altra le spoglie di giorni non particolarmente significativi, un’altra ancora quelle tristi e così via.”
“Immagino che alcune stanze siano piene e altre più vuote” lo interruppe il Prof. Gottlieb.
Ernst Hirschfelder sorrise compiaciuto al suo insegnante: era lieto di poter condividere con lui il suo segreto e di scoprire che la sua insolita collezione poteva appassionare anche un estraneo, a lui poi molto caro. Proseguì quindi con rinnovato entusiasmo, sorridendo in modo aperto a sottolineare l’intesa e la complicità che li univano:
“Sì, naturalmente è così. Per questa ragione vi è più di una stanza dedicata alle pelli “banali”, mentre ne basta una sola, piccola, per quelle eccezionali. Ma si figurerà meglio la cosa quando le avrò chiarito i dettagli relativi alla conservazione!
Dopo le operazioni di ripiegatura e di classificazione, con la gruccia in mano raggiungo la stanza adatta e aggiungo il nuovo pezzo alla mia collezione. Nelle numerose stanze ad essa dedicate, ad un’altezza di circa due metri da terra, corre una lunga catena, simile a quella di una bicicletta, che è possibile mettere in movimento grazie ad un sistema di ruote dentate ancorate al soffitto mosse da un piccolo motore elettrico, così da raggiungere più comodamente ciò che si sta cercando o il punto esatto in cui inserire il nuovo pezzo. La catena cingolata è provvista di numerosi anelli, fissati nella parte inferiore di questa, ai quali poi io appendo l’uncino della gruccia. Per sfruttare al meglio lo spazio, la struttura mobile si sviluppa in numerose “anse” e così spesso, quando la faccio muovere, le pelli sfregano le une contro le altre e, producendo un familiare e riposante fruscio, muovono l’aria, che pare così più fresca e viva. Le varie stanze adibite alla collezione sono strutturate più o meno allo stesso modo, ma, ai miei occhi e al mio cuore, risultano molto diverse, perché ciascuna racchiude momenti e situazioni diversi; anche l’atmosfera, le luci, l’aria cambiano di locale in locale e questo accentua ancor più il carattere unico dei singoli pezzi.”
Proseguì poi con tono più confidenziale: “La sola stanza, invero piccola, dedicata alle giornate eccezionali, invece, è strutturata diversamente: lungo le pareti sono disposte numerose vetrinette di legno di noce, a due ante, che tappezzano tutta la camera. In questi mobili le pelli non sono appese una accanto all’altra come in un armadio, ma una davanti all’altra, quella sul fondo un po’ più in alto della seguente e così via, come su una scala. In questo modo riesco a tenere sott’occhio tutti i pezzi della mia collezione. Dentro queste vetrinette le mie pelli, le più preziose, mi sembrano più protette, al sicuro dal mondo esterno, pur restando sempre ben visibili. Esse sono per me la prova tangibile che anche una vita come la mia, spesso infelice o piatta, riserva momenti lieti” disse con voce che lasciava trasparire un senso di sollievo. “Nella stanza c’è anche una portafinestra che conduce su un piccolo balcone e così l’ambiente è spesso illuminato da una calda e vivida luce naturale, che riscalda questo luogo così caro.
Le camere in cui ho riposto i resti delle mie giornate meno belle sono affatto diverse, anche per atmosfera: in esse, infatti, si aprono sì sempre finestre, che però sono di dimensioni minori e che, affacciandosi su un cortile interno, ricevono una luce meno diretta, tanto che spesso, per non commettere errori nel lavoro di archiviazione, sono costretto ad accendere la luce elettrica.”
Il prof. Gottlieb guardava Ernst con aria benevola e con un sorriso divertito sulla labbra e, senza alcun intento ironico, disse: “Sei sempre stato così preciso, mio caro Ernst, e qui me lo dimostri ancora una volta! Ma come è possibile che tu possa ricordare dove conservi ogni pelle? La tua memoria è sempre stata straordinaria, ma qui parliamo di migliaia di dati!”
“Ottima domanda! Quasi mi dimenticavo di parlare di questo importantissimo aspetto: in ogni stanza, vicino alla finestra c’è un tavolinetto su cui poggia un grande registro, le cui pagine sono già suddivise nelle colonne e caselle che mi servono per annotare le informazioni salienti. La prima colonna contiene la data, la seconda il voto che al momento della classificazione ho attribuito alla giornata, la terza una brevissima descrizione dei momenti chiave, la quarta altre annotazioni supplementari e la quinta …” Ernst si interruppe un momento, si schiarì la voce e, guardando negli occhi Gottlieb, proseguì: “La quinta contiene le informazioni sul numero di viaggi percorsi, sulla loro nuova valutazione, sulle sensazioni che hanno risvegliato in me, ….”
Il prof. Gottlieb lo guardava con aria interrogativa e perplessa, ma, dopo qualche secondo, il suo viso si rischiarò e i suoi occhi brillarono divertiti e stupiti, alla luce della scoperta. E così esclamò: “Ah, ora comprendo: ecco che cosa volevi dirmi prima, ecco il vero significato della tua collezione!”
“Ebbene sì, Professore, sapevo che avrebbe capito da solo che il mio amore per le pelli non è dovuto solamente alle manie, stravaganti ma innocue, di un collezionista appassionato!” Si sentiva nella sua voce la soddisfazione per l’intuito dimostrato dall’insegnante, che gli permetteva di tralasciare alcuni dettagli. “Grazie ai miei ricordi posso rivivere ogni giornata della mia vita, ritornare indietro anche di decine di anni, analizzare di nuovo i miei errori, le mie difficoltà, compiacermi ancora una volta dei miei successi e godere dei momenti più felici già passati. Mi basta scegliere il giorno, prendere la pelle corrispondente, avvicinarla al petto e, dopo aver chiuso gli occhi e inspirato profondamente” Ernst, mentre raccontava, compì questi gesti “comincia il viaggio. Tutto si ripresenta vivo come all’epoca: ogni sensazione, ogni evento, ogni persona ricompaiono identici a come erano realmente quando vissi per la prima volta quella giornata. Proprio per questo straordinario realismo, però, mi sono spesso trattenuto dal rivivere giornate particolarmente tristi o grigie, mentre ho ripercorso volentieri, anche più volte, situazioni di grande gioia e felicità. Gradualmente così queste vestigia del mio triste passato si sono trasformate, in modo assolutamente paradossale: proprio come i ricordi che ognuno di noi conserva in sé, le pelli più indossate, più vissute, sono ancora fresche, vive, colorite, morbide, mentre le altre, quelle abbandonate in qualche punto remoto della collezione, sono consumate e offese dal tempo, così appassite e ingrigite. A questa regola fa eccezione una pelle, unica e speciale, che non ho mai voluto utilizzare per i miei viaggi nel passato” qui si fece di nuovo triste e serio. “È il primo pezzo della collezione, il pezzo che porta su di sé le tracce degli ultimi baci e abbracci di mia madre, ma che custodisce anche il ricordo della sua morte. Questa si conserva in uno stato di perfetta integrità, anche se io non ho mai fatto nulla per conservarla meglio delle altre; l’unica attenzione che ho verso di essa è che ne controllo sovente lo stato di conservazione. La pelle resta fresca e viva come quando la raccolsi spaventato quel mattino di trentotto anni fa e nulla, ancora oggi, riesce a farmela sentire lontana, come se ormai il ricordo fosse sopito. Cerco di non nutrire il ricordo di quel giorno con i miei viaggi nel passato, ma un evento di tale importanza ha una vita propria, si alimenta da sé e nulla lo spegne definitivamente. ”
Il Professor Gottlieb guardò di nuovo il ritratto della moglie. Il dolore della sua morte era ancora vivo, ma la dolcezza dei ricordi di una vita trascorsa insieme lo attenuava un poco. Pensò alla fortuna di Ernst che, a suo piacimento, poteva rivivere i più bei momenti della sua vita; riflettendo ancora, però, non provò più invidia per la collezione dell’uomo, ma sentì anzi una grande pena per lui. Rivivere, come in un viaggio nel tempo, attimi di gioia poteva dare sì una grande gioia, ma solo temporanea: ogni ritorno al presente significava un nuovo strappo, una nuova ferita che si rimarginava a fatica. I suoi ricordi invece, quelli di ogni uomo comune, avevano il dono di potere essere conservati nella mente, ma anche quello di essere modificati dalla distanza e dal distacco con cui si riesce, col tempo, a pensare al passato. Tuttavia non voleva ferire Ernst con questa sue riflessioni. Gli parlò allora in modo affettuoso e partecipe, lasciandogli così il tempo di riprendersi da quest’ultima confessione: “È vero, si dice che il tempo sia un medico che guarisce tutte le ferite, ma io sono del parere che non sia mai del tutto possibile accettare e superare alcuni lutti. Nel tuo caso poi, tu, un bambino di pochi anni, hai perso tua madre, cui eri così legato. Il ricordo di quello che hai avuto da lei non può certo compensare appieno quello che ancora avresti potuto vivere con lei. È certo più facile fare i conti con la realtà che convivere con un fantasma, sognando quello che avrebbe potuto essere e non è. Tuttavia, mio caro Ernst, la possibilità che ti viene data dalla tua collezione di rivivere il tuo passato è, sotto molti aspetti, un bene invidiabile” affermò con generosità. “È pur vero che tu non puoi tornare ai giorni passati con tua madre, se non con la memoria, come tutti noi; di certo, tuttavia, avrai vissuto molte altre giornate degne di nota e di essere rivissute. Orsù, racconta, voglio conoscere meglio le opportunità che ti offrono le tue pelli e figurarmi quale possa essere la vita di chi è in grado di viaggiare a piacere nel tempo!”
“Il periodo che rivivo più volentieri è quello che trascorsi in Italia, in un lungo viaggio sulle orme di Goethe, se così si può dire... Kennst du das Land wo die Zitronen blühn…” cominciò a recitare.
“In dunkeln Laub die Goldorangen glühn”[14] proseguì incantato Gottlieb, socchiudendo gli occhi, rapito da questi versi.
“Orbene, prima di raggiungere l’Italia, ci fermammo a Trieste. Dovevo andare in quella città per ragioni di lavoro: un cliente importante, con cui avevo però buoni rapporti quasi d’amicizia, mi aveva pregato di raggiungerlo per redigere il suo testamento. Viaggiava con me un giovane appena laureato, Franz, cui avevo chiesto di accompagnarmi più per godere di una compagnia che per una reale necessità pratica. Era un giovane uomo di poco più di venticinque anni, intelligente e attento, ma troppo timido per dimostrarlo agli altri e per mettere in risalto le sue vere doti, così da ottenere i risultati che meritava. In quel viaggio, in quei lunghi giorni che avremmo dovuto trascorrere insieme speravo di riuscire a parlargli, a sbloccarlo. Io avevo allora una decina d’anni più di lui, ma mi sentivo molto più vecchio e ricco d’esperienza. Non le nascondo che mi piaceva l’idea di potere fare da cicerone, da mentore” pronunciò con enfasi queste parole “a un ragazzo che, per alcuni aspetti, vedevo così simile a quello che ero stato. Era anche una forma di omaggio a tutto quello che Lei, Professor Gottlieb, aveva fatto per me, un modo per trasmettere a un giovane quello che avevo imparato da Lei” e qui gli sorrise ancora una volta, grato. “Era poi un modo di provare a me stesso di essere ormai un adulto equilibrato, sereno, capace di dare ad altri il bene che avevo ricevuto.
Il lavoro a Trieste richiese un paio di giorni, durante i quali fummo ospiti del mio cliente, che fu molto premuroso e ci fornì molte indicazioni utili per il nostro imminente viaggio in Italia. Lasciammo la città di sera, in treno, alla volta di Milano. Avevo deciso infatti di lasciare Venezia come ultima tappa, sulla via del ritorno, per rivedere il mare prima di tornare a Vienna.
Superati i controlli alla frontiera, potemmo riposare qualche ora, prima di giungere a destinazione. Arrivammo a Milano, la prima meta del nostro viaggio, verso l’alba: la città, avvolta dalle nebbie e illuminata dalla rosea luce che investiva la campagna, si presentava ai nostri occhi come un luogo incantato, magico: è strano come spesso la luce possa far apparire le cose in modi differenti. Mi piace poi scoprire una città, a me sconosciuta, quando ancora non si è risvegliata, coglierla in un atteggiamento quasi intimo, prima che dia inizio alla sua giornata, alle sue molteplici attività. È un po’ come osservare una donna incantevole mentre dorme…” aggiunse ispirato. “Per questa ragione, in tutto il viaggio in Italia feci in modo di arrivare ad ogni tappa alle prime ore del giorno.
Avevo deciso di visitare Milano per potere andare sulla tomba di Radetzky[15] e per vedere come era diventata una città che, fino a qualche decennio prima, era sotto il nostro comando. Mi colpì soprattutto la vivacità di quella che ritenevo, a torto, una città tranquilla e monotona: il traffico, il via vai di gente, le grandi costruzioni che sorgevano ovunque, un’aria di sviluppo e rinnovamento impensati. Accanto a edifici nuovi e sfarzosi si nascondevano ancora angoli della vecchia Milano, più semplici e segreti, ma non meno suggestivi: è come se la città oscillasse fra la voglia di esibirsi e una naturale modestia. Girando in carrozza, visitammo anche la cerchia delle mura, le “Mura spagnole” come si chiamano là, che venivano demolite proprio in quegli anni. Lungo questo perimetro erano in costruzione palazzi davvero imponenti e sontuosi, quasi soffocati però dalle strade, così strette e inadeguate. Nulla a che vedere con i nostri viali alberati del Ring[16]!” esclamò Ernst con autentico orgoglio nazionale.
“Dopo Milano, visitammo Genova, una città completamente diversa dalla prima. Credo che sia stato il contatto con il mare, un mare così diverso da quello di Trieste, a rendermela così cara! Le voci, poi, i profumi, le luci, un sole così brillante, le persone riservate e aperte allo stesso tempo: tutte cose che non posso dimenticare. Leggevo il mio entusiasmo per questi nuovi luoghi negli occhi di Franz, ancora più affascinato e incantato di me.
Proseguimmo poi per Firenze, poi andammo a Roma – oh, Professor Gottlieb, che città unica e meravigliosa! – quindi raggiungemmo Napoli e poi ancora avanti in Calabria e, attraversato il mare, la Sicilia. A mano a mano che il nostro viaggio avanzava, scoprivamo sempre nuove bellezze: non solo i monumenti, certo, ma anche i paesaggi, la natura selvaggia. Ogni città, ogni zona erano così diverse fra di loro, come se ciascuna di loro potesse raccontare una storia diversa. E davvero è così!” Ernst parlava rapidamente, senza seguire un filo logico, solo sull’onda dei ricordi di quel suo viaggio tanto memorabile da riviverlo spesso. “Visitare quei luoghi carichi di storia, percorrere le stesse strade lastricate che avevo imparato a conoscere sui libri e nei Suoi racconti, Professore, le stesse strade che forse aveva percorso Cesare, toccare con le mie mani” calcò la voce su queste parole e mostrò le mani aperte a Gottlieb “le colonne, le statue, gli edifici costruiti nell’antichità, tutto questo mi dava la sensazione di potere rivivere quel passato, di essere anch’io parte di quella storia.
Sentivo bruciare sulla mia pelle lo stesso sole che aveva illuminato quei luoghi così ricchi di memoria, assaporavo gli stessi cibi che avevano nutrito i nostri antenati, ascoltavo voci e musiche incantevoli e incantatrici. Che paese straordinario, l’Italia!” si interruppe per prendere fiato. Poi continuò con nuova lena: “Non so dirle che cosa mi piacque di più fra tutte le meraviglie che vidi: mi sembrerebbe di fare torto alle altre, indicandone solamente una… forse, però… direi Pompei! Vedere i resti di quella città, percorrere le vie, entrare in quello che è rimasto delle case e delle botteghe è come sentire ancora vivi quel luogo e le persone che vi hanno abitato. No, davvero, non ha nulla a che vedere con la sensazione che si può provare ammirando nella vetrina di un museo, distante migliaia di chilometri dal luogo di provenienza, un capitello o un vaso antico! Lì, nel museo, la storia è come mummificata; in Italia, invece, si vive nella storia!” esclamò Ernst con convinzione. Riprese poi a parlare con tono confidenziale e divertito ad un tempo: “Anche le pelli di quel periodo portano impresse in sé la gioia di allora: i lineamenti del volto sono distesi, le pelli stesse paiono emanare una luce interiore, sembrano più vive. Naturalmente, durante il viaggio era sorto il problema di come conservare questi miei particolari souvenirs; in un primo tempo avevo pensato di inviarli a Vienna, a casa, ben imballati dentro casse ben sigillate. L’idea di affidare questi cari ricordi a mani estranee e la paura che qualcuno potesse vederli, rubarli o danneggiarli e che mi smascherasse mi fece decidere in altro modo: comperai un baule armadio, dentro il quale ogni mattina, come a casa, riponevo la pelle del giorno prima. Questo ingombrante bagaglio supplementare rese più complicati gli spostamenti da una città all’altra, ma mi permetteva di non separarmi dai miei ricordi.”
“E Franz” chiese Gottlieb “non sospettò mai nulla, non chiese spiegazioni?”
“No, era un ragazzo troppo discreto e timido per manifestare una curiosità verso qualche aspetto della mia vita privata!” Ernst parlava con voce dolce, che lasciava intuire il profondo affetto che lo legava a quel giovane uomo. Preferì tuttavia abbandonare questo argomento che sembrava imbarazzarlo e tornò a parlare del viaggio. “Anche Franz fu incantato da quel lungo viaggio insieme: ammirava tutto con occhi da fanciullo, ascoltava attento e beato ciò che gli spiegavo, pur non essendo affatto ignaro degli argomenti trattati; a volte, mi interrompeva con gentilezza per pormi domande sempre acute e intelligenti su un tema particolare. Mi seguiva docilmente, ma non passivamente; si affidava piuttosto - direi - a me e alla mia esperienza. Fu un piacere viaggiare con lui; fra di noi si creò una certa intimità, una forma di amicizia che pure era influenzata dalla mia posizione gerarchica e dalla differenza di età fra di noi. Potrei dire di essere stato per lui un buon maestro o forse, piuttosto, un fratello maggiore…” la fronte gli si corrugò all’improvviso. “Dio mio, non ci avevo mai pensato! Franz aveva dieci anni meno di me, proprio come Josef… Lui è stato per me il fratello minore che non ho mai avuto, che avrei voluto amare e che avevo solo saputo odiare! Professore, pensa che questo renda minori le mie colpe verso Josef?” chiese affranto, ma nella speranza di ricevere da altri una conferma assolutoria.
“Kind majnß[17], chi sono io per poterti giudicare?” rispose il Professore allargando le braccia e scuotendo impotente la testa. “Posso solo dire che tu e Josef siete stati vittime innocenti di una perdita così grave, che nemmeno un adulto come tuo padre ha saputo superare completamente e senza conseguenze. Come possiamo capire e accettare un evento irreparabile come la morte? Sii sereno, Ernst! Non sei colpevole della morte di Josef. Con Franz hai potuto e saputo creare un legame, un rapporto speciale, gli hai dato la tua stima e gli hai regalato dei momenti che anche per lui saranno indimenticabili. Il fatto che tutto questo faccia sentire meglio anche te non diminuisce il valore di questo dono!
Ma ora basta, bando alla malinconia!” esclamò sorridendo, per incoraggiare Ernst a ritrovare l’entusiasmo con cui aveva parlato dei ricordi lieti. “Raccontami ancora del tuo viaggio!”
“Che cos’altro potrei raccontarle, Professore? Di altri viaggi, degli inviti a corte, dei concerti e delle opere cui ho assistito? O forse delle personalità che ho incontrato e conosciuto? Oppure degli amori fugaci e mercenari con le “ninfe del Graben”? O ancora del mio lavoro che, senza dubbio, al di là degli inevitabili problemi, mi ha riservato grandi soddisfazioni ed un certo successo, se non addirittura una non limitata fama?” Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto.
“Ho provato molte cose nella mia vita eppure non posso dire di avere veramente vissuto! Che cosa resterà di me, dopo che sarò morto? Una serie di atti e pratiche e la mia imbarazzante collezione, che nessuno potrà comprendere! Chi mi piangerà, chi potrà dire di avermi davvero conosciuto?
E dove sono poi le sfide personali che ho saputo raccogliere, dove ad esempio la mia capacità di affrontare la vita al fianco di una donna? No, io sono fuggito: per non soffrire, non ho rischiato!” Scosse la testa sconsolato.
“Mi capita di guardare con invidia – no, l’invidia non è un sentimento che mi è proprio – piuttosto con ammirazione e rimpianto le famiglie che passeggiano per i giardini: marito e moglie che camminano uno accanto all’altra e i bambini che corrono e giocano nei prati. L’apprensione delle madri e i rimproveri, a volte anche severi, dei padri, ma anche l’orgoglio che si legge nei loro occhi sono sensazioni che mi mancano!
Non conosco neppure la routine della vita coniugale, la quotidianità, le piccole discussioni e il riappacificarsi, ma quanto vorrei provare tutto ciò!
Spesso poi mi sono ritrovato a chiedermi se sarei stato un padre come il mio o mi sarei comportato in modo affatto diverso… Non voglio giudicarlo: la sua educazione, l’epoca in cui è vissuto, le vicende della vita l’hanno portato ad essere come è stato. A lui, come a mia madre, devo la vita; e questo non è davvero poco! A chi ho saputo dare altrettanto?
Mi sembra di avere rinunciato a vivere. I giorni si susseguono, uguali salvo pochi, piccoli imprevisti o avvenimenti di scarsa rilevanza: è come se ogni giorno che passa servisse solamente ad arricchire la mia collezione. Vivo per il passato e non per il futuro.” Gli occhi si incupirono e la voce si spezzò. Alzò poi lo sguardo e disse con foga:
“Tutto questo però ora mi esaspera! Ho quarantotto anni, amo una donna, ma non oso pensare ad un futuro con lei! Che ne sarà dei miei sogni più profondi?”
Mutò di colpo tono. “Professore, Lei conosce le opere di Klimt?”
Di fronte a questo improvviso cambio di rotta, Gottlieb guardò perplesso Ernst e annuì.
“Bene, allora conoscerà anche “Il bacio”[18], un quadro che io considero emblematico del sentimento che può legare un uomo e una donna. La sensualità che emanano le due figure abbracciate, la forza e la tenerezza che lui sa esprimere, l’abbandono e la fiducia nel volto di lei, le loro mani così espressive, intrecciate come i destini che ciascuno dei due ha deciso di affidare all’altro: ecco, questo è ciò che vorrei riuscire a costruire con Claudia!”
Ernst tacque, spossato e svuotato.
Il Professor Gottlieb lo osservò, tacendo a sua volta. L’anziano uomo da una parte voleva confortare ancora una volta l’amico, perché capiva che questi aveva dovuto abbattere, in un colpo solo, i muri di protezione eretti intorno a sé, per difendere il suo io così fragile e la sua vita privata, così vuota da un canto e così piena di oscure ombre dall’altro. Sentiva però che il suo compito, difficile perché avrebbe potuto farlo apparire crudele agli occhi di un uomo che gli chiedeva aiuto, era quello di spingere Ernst ad affrontare il problema con Claudia, qualunque fosse poi l’esito della confessione.
Gottlieb non poteva prevedere quale sarebbe stata la reazione della giovane donna di fronte al segreto dell’uomo che amava; lui stesso, un anziano professore, curioso e aperto alle novità, carico di esperienza e di anni, ma anche di affetto verso il suo allievo di un tempo, aveva dovuto frenare l’istintivo moto di ribrezzo che il racconto di Ernst aveva suscitato in lui. Pelli, migliaia di pelli conservate con cura e con un amore quasi ossessivo, testimonianza della metamorfosi continua cui siamo sottoposti: un fenomeno inspiegabile, anche se perversamente affascinante. Gottlieb, tuttavia, aveva anche saputo celare il turbamento e, poco alla volta, ascoltando le parole infervorate di Ernst e riflettendo su di esse, aveva subito a sua volta il fascino di quella collezione impensabile e unica. Anche Claudia, che amava Ernst, avrebbe ben potuto accettare le stranezze dell’uomo verso cui nutriva un vivo sentimento d’amore!
Si alzò dalla poltrona, si avvicinò a Ernst, gli appoggiò una mano sulla spalle e gli disse, con tono calmo ma deciso: “Mio caro, hai voluto condividere con me il tuo segreto; per me tutto questo rappresenta un onore, perché è lusinghiero sapere che ho saputo conservare la fiducia e l’affetto che provi per me in tutti questi anni. Che cosa c’è di più bello che condividere con le persone care, che amiamo e stimiamo e che ricambiano questi nostri sentimenti, dolori e piaceri? Orbene, in anni ormai remoti ci siamo conosciuti, io ho cercato di trasmettere a te e ai tuoi compagni il mio sapere, ma anche le mie passioni e i valori in cui credevo; nel tuo caso, come in pochi altri nella mia carriera di insegnante, il mio impegno è stato ampiamente ripagato, proprio perché con te si è creata un’empatia, rara e preziosa. Ah, le affinità elettive!” sospirò. “Non ho voluto mai plasmarti a mia immagine e somiglianza, ma ho cercato di far sbocciare i germogli che vedevo in te, di fare emergere le doti ancora misconosciute o nascoste. Credo che il mio merito, se me ne posso riconoscere uno, sia stato quello di capirti e aiutarti a scoprire la tua strada, il tuo modo di essere.”
Guardò Ernst con intensità. “Forte di questo rapporto speciale che ci unisce, ora mi permetto di spingerti ad agire. Non ti resta che una sola cosa da fare: parla con Claudia! Anche tu sai che questo è l’unico modo per vincere i tuoi dubbi, ma soprattutto le tue paure! Vent’anni fa hai provato a confidarti con Petra e lei non ha saputo accettarti; ora tu sei convinto che nessun’altra possa amarti per come sei. Ma non è giusto che tu giudichi basandoti sul tuo passato: lei è una donna diversa e tu la devi vedere con occhi nuovi, innocenti, senza pregiudizi. Dalle l’opportunità di condividere il tuo segreto, dimostrale di avere piena fiducia in lei! Che cosa può desiderare di più, come prova d’amore?” Proseguì, senza lasciare all’uomo la possibilità di replicare:
“Ernst, tu sai quanto ti voglio bene e ti sei rivolto a me proprio per questo motivo. Io ho saputo ascoltarti e accettare quello che mi hai raccontato; ebbene, perché non puoi pensare che anche Claudia possa fare altrettanto?”
Ernst guardò il Professore con occhi lucidi, ma con uno sguardo limpido e rispose, sorridendo timidamente e sfrontatamente ad un tempo: “Professore, sono felice di avere parlato con Lei; si dimostra sempre uomo di eccezionali doti umane e psicologiche! Oh, se solo mi fossi deciso anni fa, chissà che strada avrebbe imboccato la mia vita!” Sorrise prima mesto, poi speranzoso. “Non posso modificare il mio passato, ma posso cercare di costruire un futuro diverso, proprio con Claudia. Lei ha saputo trovare le parole giuste: con la Sua “orazion picciola” mi ha dato la forza necessaria per parlare sinceramente con la mia amata. Ha ragione: il suo amore per me è grande e grande sarà anche la sua capacità di capirmi!” disse con convinzione.
“E ora, come posso ringraziarla, Professore?” chiese Ernst a Gottlieb, guardandolo con immensa gratitudine .
Gottlieb aprì le braccia, sorridendo, ed Ernst abbracciò il Professore. Quel breve contatto fisico gli diede serenità e, nello stesso tempo, la forza di affrontare il suo destino. Si sciolse dall’abbraccio, strinse la mano al Professore e lo salutò, quasi fuggendo via: “Arrivederci, Professore, grazie di tutto! Domani le farò sapere come è andato l’incontro con Claudia. Spero, no sono certo, di annunciarle il mio matrimonio con lei! Grazie ancora, a presto!”
Il notaio Hirschfelder scese di corsa le scale; il Professor Gottlieb lo guardò scomparire nel vortice delle rampe, poi lentamente richiuse la porta.
Ernst giunse in un attimo sul marciapiede. Si fermò e si voltò a guardare la facciata, per vedere se il Professore si affacciava al balcone e salutarlo ancora una volta. Lasciò correre lo sguardo sulla facciata, ne ammirò le decorazioni e sorrise ai volti femminili raffigurati sui medaglioni dorati. Con decisione attraversò la strade e si immerse nelle voci e nei profumi del Naschmarkt. Un organetto riproduceva con un suono un po’ meccanico le note allegre, scherzose e spensierate di “Frühlingsstimmen”, di Johann Strauss[19]. Si accorse di provare appetito e comprò da una venditrice un sacchetto di arance dorate e profumate; camminando lungo il mercato mangiò un frutto, gustandone gli aromi, indifferente agli sguardi stupiti di alcuni passanti, che sembravano giudicarlo: lui, un uomo ben vestito, alto, dallo sguardo fiero e severo, dai cui occhi traspariva però una luce brillante e scanzonata, che mangiava per strada come un qualsiasi monello!
La gioia e l’esaltazione di Ernst erano al colmo: fra poco avrebbe aperto il suo mondo a Claudia, si sarebbe finalmente liberato del suo guscio protettivo e si sarebbe mostrato a lei nella sua autentica veste!
Camminando di buon passo, giunse al Padiglione della Secession[20]. Si fermò ad ammirare la luce del sole al tramonto che giocava sulle migliaia di foglie dorate della cupola, rendendole fiammeggianti e vive, come se fossero mosse dal vento.
Tutta la città, anche se la giornata volgeva al termine, era più viva che mai: passanti, carrozze, qualche autovettura, voci. Seguì le carrozze che si dirigevano verso l’Opera; davanti al teatro dalle vetture scendevano eleganti dame che, scortate dai loro cavalieri, si accingevano ad entrare in teatro per assistere certo allo spettacolo, ma anche per esibirsi ed osservare gli altri. Riconobbe volti noti, accennò un breve saluto e proseguì verso il suo studio. Incontrò anche diversi giovani mascherati: il Carnevale impazzava ormai dal giorno di San Silvestro e i festeggiamenti si susseguivano con ritmo sempre più serrato, perché ormai si avvicinava il Martedì grasso.
Osservò tutte quelle maschere e pensò ai volti che celavano. Chissà se anche loro nascondevano qualche segreto?
Affrettando ancora il passo, come trasportato da una sfrenata voglia di affrontare il proprio destino, Ernst passò per una serie di viuzze poco illuminate e quasi deserte, proprio alle spalle dell’enorme complesso dell’Hofburg. Camminava a testa alta, guardandosi intorno e cercando di osservare quanto più poteva nella semioscurità del tramonto. Scrutava ogni edificio, ogni chiesa, ogni persona gli passasse di fianco; sembrava aver ritrovato la sua gioia di vivere, grazie anche all’atmosfera di festa e alla bellezza della città.
Imboccò la Dorotheergasse, dove il Café Hawelka – quante volte si era incontrato lì con colleghi e clienti! - era ancora aperto. Poco oltre, su una casa intravide una lapide di marmo, cui non aveva mai prestato attenzione in passato, sempre così preso dai suoi incalzanti ritmi di lavoro. La lapide ricordava che in quel palazzo era vissuto Conradin Kreutzer, compositore minore cui però Beethoven aveva dedicato la nona sonata per violino e pianoforte. A Ernst sovvenne, come un lampo, l’immagine di sua madre mentre, insieme ad un amico di famiglia violinista, eseguiva questo brano; le note fluivano velocemente e risuonavano precise e vive nella memoria di Ernst. Si fermò un attimo a pensare, come se l’indecisione e la tristezza avessero ripreso il sopravvento, ma poi inspirò profondamente l’aria fredda di questa serata invernale e ricominciò a camminare di buon passo. Prestò arrivò sul Graben; i numerosi negozi di questa elegante via commerciale stavano ormai abbassando le saracinesche e gli ultimi clienti uscivano di corsa, pieni di pacchetti di ogni tipo, confezionati con gusto. La città si faceva sempre più silenziosa, anche nelle vie centrali, di solito così affollate e rumorose.
Arrivato in fondo al Graben, si guardò intorno, a destra e a sinistra, prima di svoltare ancora di nuovo per arrivare in ufficio. Sulla sua sinistra scorse in lontananza il colonnato dell’Hofburg, splendidamente illuminato. Alle spalle del grandioso complesso era tramontato il sole che diffondeva una romantica luce rosata, riflessa dalla cupola di rame, luce contro la quale si stagliavano le numerose statue di marmo che decoravano il cornicione superiore. Sulla sua destra si apriva la Tuchlauben, attraverso la quale sarebbe poi arrivato in studio; mentre osservava il mondo circostante con occhi nuovi, attenti ed estasiati, scorse due bellissime effigi, che ornavano l’ingresso della farmacia in Bognergasse. Realizzate con migliaia di piccole tesserine da mosaico, raffiguravano due angeli con volti femminili, dalle ali spiegate. Erano opere recenti, tipiche dello Jugendstil, che affascinarono Ernst non solo per la bellezza delle figure e la realizzazione, ma perché gli trasmettevano un senso di protezione. Egli rimase a fissarle per alcuni secondi, godendo della serenità che emanavano.
Proseguendo, all’incrocio con la Naglergasse, sulle due case d’angolo si fermo nuovamente a contemplare le due voluttuose cariatidi che sostenevano i balconi sovrastanti, coperte solo da un leggero peplo che cadeva con ampie pieghe sui loro morbidi corpi femminili. Questo susseguirsi di immagini muliebri e benevole gli infuse una forza e un vigore straordinari: si incamminò risoluto verso sinistra, lungo la strada che conduceva al suo studio. Passò oltre la Peterskirche, dalla quale uscivano vecchie signore impellicciate, che avevano appena assistito all’ultima messa della giornata. Presto fu in Hoher Markt, dove lieto l’Ankeruhr suonava ormai le sei. Deciso imboccò la Marc Aurel Strasse e sparì nel portone al numero 6.
Rispose calorosamente, ma frettolosamente al saluto ossequioso del portinaio e salì i gradini a due a due, fino ad arrivare davanti alla porta del suo studio. Sapeva che a quell’ora gli impiegati erano già andati via e che avrebbe trovato Claudia da sola: spesso, infatti, la donna si attardava a sistemare documenti e pratiche, approfittando della tranquillità del tardo pomeriggio. In queste occasioni, più di una volta, Claudia ed Ernst avevano vissuto dei brevi e intensi momenti di intimità e complicità, finalmente soli e al riparo da sguardi e commenti indiscreti e inopportuni. Cercò le chiavi in tasca e con le mani che tremavano per l’agitazione e l’emozione che la prova che stava per affrontare suscitavano in lui, aprì la porta; la richiuse a chiave e raggiunse l’ufficio di Claudia. Come aveva previsto, lei era intenta a riordinare carte e atti e, in un primo momento, completamente assorbita dal lavoro, non si accorse della presenza di Ernst; poi, sentendosi osservata, sollevò lo sguardo e incontrò quello di lui. La donna sorrise felice e gli corse incontro, per abbracciarlo.
“Ernst, caro, dove sei stato? Sei uscito dall’ufficio prima di mezzogiorno, senza dire nulla e nessuno sapeva dove fossi! Sono stata in pensiero per te!”
“Claudia, oh se sapessi… Mi dispiace che tu ti sia preoccupata per me, sei sempre tanto cara! Ma, vedi, avevo bisogno di riflettere, di riordinare i miei pensieri; sono stato dal Professor Gottlieb…”
“Il tuo insegnante del Ginnasio? Sì, ricordo che me ne hai parlato!”
“Sì, proprio lui; dovevo parlare con qualcuno dei miei dubbi, dei miei tormenti e sapevo che mi avrebbe capito e aiutato!”
Claudia lo guardò triste e corrucciata: “E io? Non mi consideri forse degna di condividere i tuoi pensieri? O non mi credi capace di capirti e aiutarti? Ernst, che considerazione hai di me?”
“Scusami, amore, non volevo certo offenderti! Sì, c’è un segreto nella mia vita, nel mio passato e non sono ancora riuscito a parlartene. Non si tratta di mancanza di fiducia, credimi! Conosco il Professore da tanti anni, mi ha sempre accompagnato e sostenuto nei momenti più difficili, quando ero ancora un ragazzino solo e disorientato. Per me è stato come un padre, tanto premuroso e attento, e mi è sembrato naturale rivolgermi a lui per avere dei consigli, un parere sincero. Quello che conta è che finalmente sono stato capace di aprirmi completamente a qualcuno, di confidargli il mio segreto, di mettere a nudo la mia anima! È importante quello che ho fatto, non con chi l’ho fatto! Tu sei la donna che amo, ma anche Gottlieb ha avuto e ha ancora un ruolo non secondario nella mia vita: mi è sembrato giusto sciogliere con lui questo nodo, che mi blocca e mi impedisce di vivere serenamente. Il mio dialogo con lui è stato come una prova generale, ma la “prima” sarà tutta per te, mia cara!”
Claudia continuava ad osservarlo con uno sguardo interrogativo, perché le parole di lui - oltre a non avere cancellato del tutto la delusione per la mancanza di fiducia che, secondo lei, Ernst le aveva dimostrato - le suscitavano nuovi dubbi e interrogativi. In quei mesi, tuttavia, aveva imparato a conoscerlo: conosceva i suoi silenzi, la sua riservatezza, i momenti di profonda tristezza e quelli, rari, di esaltazione, il suo essere misurato, chiuso e a tratti quasi ostile, ma anche la sua grande generosità e la gioia allegra dei suoi occhi, quando Ernst riusciva finalmente a rompere la sua corazza, che – come lui forse avrebbe desiderato – lo faceva sentire invulnerabile e impermeabile agli eventi esterni. D’altra parte, Claudia lo amava e questo l’aveva portata ad accettarlo com’era; allo stesso tempo, il suo amore per lui l’aveva resa meno impulsiva e aveva smussato certi tratti spigolosi del suo carattere passionale e irruente. La donna si dispose così, con animo sereno, ad attendere le spiegazioni che certamente Ernst, prima o poi, le avrebbe dato.
L’uomo le sorrise, le afferrò le mani e la guardò con intensità; poi la abbracciò e appoggiò la testa sulla spalla di lei, rifugiandosi fra le sue braccia come a farsi proteggere. “Claudia, tesoro, potrai mai perdonarmi? Io ti amo, anche se non sono sempre capace di dirtelo e dimostratelo come vorrei e come tu meriteresti! I dubbi, le incertezze e in fantasmi del mio passato mi rendono tanto irresoluto da non sapere come agire e che cosa fare. Ma voglio essere sincero con te: nel mio appartamento conservo con amore una serie di… cose… oggetti, che mi ricordano tutto il mio passato. È davvero una collezione unica, ma…” Ernst balbettò, non sapendo che cosa dire, come spiegare il suo segreto. In cuor suo, poi, temeva ancora le reazioni di Claudia e questo lo rendeva ancora più cauto. “Ah, il mio passato, i miei ricordi, tanto cari quanto, a volte, opprimenti! Com’è possibile che quello che fui mi impedisca di vivere il mio presente e di sperare in un futuro?”
Ernst si interruppe, sull’orlo del pianto. Claudia si era voltata verso la finestra e una lunga ciocca dei suoi bei capelli ondulati, sfuggita allo chignon le nascondeva il viso, impedendogli di scorgere la sua espressione. Le sue spalle sussultavano, scosse da un pianto silenzioso, ma non per questo meno dilacerante: condivideva il dolore di Ernst, ne percepiva il travaglio, diviso com’era fra il bisogno di confidarsi e la paura di essere – chissà perché – respinto; allo stesso tempo, però si sentiva quasi colpevole, come se le sue rimostranze di poco fa lo avessero ferito ingiustamente. Claudia sospirò, cercò di riacquistare la calma e una voce ferma, prima di parlargli: “Ernst, mio caro, anch’io ti amo! Non dubitare mai di questo! Il tuo passato, dici? Lo conosco, me ne hai parlato. Anche tu hai saputo accettare il mio, per noi non è mai stato un motivo di divisione o di rimprovero. Ecco, guardati” e lo portò davanti alla finestra che riflesse la loro immagine, stretti uno accanto all’altra. “Tu sei così, sei l’uomo che ho conosciuto in questi mesi e che io amo, profondamente e incondizionatamente; sei il prodotto di tutto quello che hai vissuto e provato durante la tua vita. Io amo questo prodotto e quindi non posso che amare tutto ciò che ti ha reso l’uomo difficile e contorto, ma anche meraviglioso ed esaltante che sai essere. Non so che cosa conservi a casa; so però che amo il tuo passato, amo ogni momento che hai vissuto, amo i tuoi ricordi e voglio condividerli con te, insieme per sempre!”
“Ah, Claudia, non puoi immaginare quanto mi confortino le tue parole!” Ernst le strinse con trasporto le spalle. “In questi mesi il dubbio e l’incertezza che tu mi potessi respingere mi avevano fatto sprofondare in uno stato d’animo di cupa malinconia, ma anche di romantica passione!”
Ernst si rivolgeva a lei, fissandola e osservando estasiato i suoi bellissimi occhi verdi, che quasi brillavano di luce propria nell’oscurità della sera. Claudia invece si guardava un po’ intorno, ogni tanto abbassava lo sguardo e fissava il suolo, esternando così il bisogno di riflettere, di mettere ordine nei suoi pensieri: per la prima volta si trovava a parlare apertamente di amore e passione con chi, fino a poche ore prima, era ufficialmente solo il suo datore di lavoro, un uomo sempre tanto serio e misurato.
Claudia guardò intensamente Ernst negli occhi, gli prese il volto fra le mani e gli diede un lieve bacio sulla bocca; poi gli sorrise, con amore. Ernst, così preso ormai dall’entusiasmo e dalla passione amorosa, rispose al suo bacio con ardore, lasciando finalmente libero sfogo all’amore che in quei mesi aveva accumulato dentro di sé, senza renderlo palese per timore di una nuova delusione.
“Ora che sono certo dei tuoi sentimenti” disse con sguardo febbricitante “credo che sia giunto il momento di fare un passo importante!” Il tono si fece serio e quasi ufficiale. “Vorrei invitarti a visitare la mia casa, l’unico guscio che protegge la mia intimità dal clamore della vita pubblica e della mondanità. Credo che solo così tu possa scoprirmi fino in fondo, conoscere ogni singola parte di me.
Quando fra poco ci sposeremo… Perché tu mi vuoi sposare?” chiese stringendole forte le mani e guardandola con amore. Claudia sorrise e annuì commossa “è lì che vivremo insieme il nostro amore; per questo vorrei prima conoscere anche il tuo parere sulla casa.”
Claudia era molto sorpresa: non si aspettava infatti una così straordinaria determinazione da parte di chi si era sempre dimostrato tanto riflessivo e titubante. Allora la giovane donna, come se volesse dimostrargli il suo appoggio, lo prese per mano e con voce lieta gli disse:
“Sono veramente curiosa di scoprire dove passi la tua vita privata e sono lusingata di avere il privilegio” rise divertita a questa parola “di entrare dove nessun altro è mai entrato. Vieni, andiamo, mio caro!” E con un inchino lo invitò ad uscire dallo stanza.
Indossati pelliccia e cappotto, mano nella mano si avviarono fuori dello studio, di corsa giù per le scale; arrivati sulla strada, Ernst fermò una carrozza e insieme salirono a bordo.
Gli zoccoli dei cavalli risuonavano sulle strade lastricate della città, ormai avvolta dalle tenebre; per strada, illuminati dai nuovi lampioni in ferro battuto, solo pochi passanti, qualche ubriaco un po’ troppo euforico e cani e gatti randagi in cerca di cibo.
Dal mantello bianco dei cavalli sudati saliva un leggero vapore; dal cielo cadeva del candido nevischio che, a poco a poco, si accumulava sui marciapiedi a quell’ora così poco battuti. La carrozza procedeva quasi sola in questa atmosfera magica e misteriosa e ben presto si fermò davanti ad un alto edificio d’angolo, affacciato sullo Stuben-Ring.
“80 Groschen[21], Signore!” esclamò il vetturino, aprendo lo sportello della carrozza ai due innamorati. Ernst gli porse uno scellino e, senza aspettare il resto, scese lesto dalla carrozza, porse il braccio a Claudia per aiutarla a scendere, poi la prese per mano cerimoniosamente e, guardando in su, le disse:
“Eccoci arrivati, cara. La facciata dell’edificio può sembrare un po’ opprimente, con tutte queste ricche decorazioni, ma ti garantisco che all’interno l’atmosfera è molto più calda e familiare.”
Imboccarono il portone, entrarono in ascensore e raggiunsero il quinto piano. Una volta sul pianerottolo, Ernst estrasse le chiavi dalla tasca e aprì la porta, che cigolò lievemente sui cardini.
“Dammi la pelliccia, cara! Provvedo subito a riporla sull’appendiabiti. Intanto, accomodati pure in salotto, qui a sinistra. Io arrivo subito.” Aveva assunto di nuovo un tono formale, come se, ora che aveva aperto la sua casa a Claudia, si sentisse meno sicuro e troppo vulnerabile. Le indicò con un movimento del braccio dove andare.
Claudia osservava gli ambienti e i locali circostanti, che tante volte aveva cercato di immaginarsi; notava che corrispondevano quasi completamente alla precisa idea che se n’era fatta. Il mobilio era di pregio, raffinato, ma non opprimente o kitsch. L’ambiente era ben riscaldato dall’impianto a carbone; in fondo al salotto poi, fra due alte librerie in ciliegio, spiccava un ampio camino, nel quale ardevano grossi ceppi di legno, le fiamme alte, di un rosso arancione intenso.
Ernst entrò in salotto, portando un vassoio d’argento su cui c’erano due tazze.
“Ti ho preparato una cioccolata, spero che ti piaccia; è una ricetta speciale, di cui custodisco da tempo il segreto. Me l’ha data di nascosto Herr Demel, sai, il proprietario della pasticceria.” disse sorridendo premuroso, mentre le porgeva una tazza.
“Grazie, amore, è proprio quello che mi ci vuole” rispose Claudia, commossa dalle sue attenzioni. “Sono ancora un po’ intirizzita dal freddo pungente della sera e qualcosa di caldo e dolce mi conforterà di sicuro!”
Si sedettero su due poltroncine, sistemate l’una accanto all’altra, tenendo in mano le eleganti tazze in porcellana dalle quali uscivano un sottile vapore e un intenso e invitante profumo. Questa nuova intimità intimidiva entrambi. Claudia bevve un sorso di cioccolata, poi per celare l’imbarazzo che la situazione le creava esclamò:
“Complimenti, Ernst! La cioccolata è eccezionale, raramente ne ho gustata una migliore. E anche l’appartamento, per quello che ho visto finora” aggiunse maliziosa “mi piace davvero. L’hai arredato con grande gusto e stile e sei riuscito a creare un ambiente e un’atmosfera veramente familiari e accoglienti. Non ho dubbi: è qui che voglio vivere con te!”
Ernst ascoltò queste ultime parole ad occhi chiusi, per concentrarsi solo su di esse e per non lasciarsi distrarre da altro; voleva godersi appieno il senso di questa semplice frase che però da tempo aveva desiderato udire. “Mi fa un immenso piacere che tu apprezzi questo ambiente, ma - come hai detto tu - purtroppo non hai ancora visitato l’appartamento nel suo complesso: ti mancano ancora numerose stanze e fra queste proprio quelle dedicate alla mia collezione. Solo che ora, cara… non offenderti… ora che sei qui, scusami … non mi sento ancora di accompagnarti a visitarle.”
Claudia rimase in silenzio alcuni secondi, guardandolo con aria dubbiosa, cercando di interpretare le parole di lui, quando qualcuno suonò alla porta. Ernst, adirato per l’inopportuna interruzione, batté un pugno sul bracciolo della poltrona, poi si alzò di scatto ed esclamò: “Scusami, cara, vado ad aprire. Mi sembra molto strano che qualcuno oggi venga ad ora così tarda qui da me. Scusami ancora, arrivo subito”. Lasciò Claudia da sola in poltrona ed andò ad aprire.
Dietro la porta c’era un fattorino che recava sotto il braccio un grosso fascicolo di carte e documenti. “Mi scusi per l’orario, Signore! Sono Hans Riedl e mi ha mandato qui Herr Kronenberg: mi ha dato l’incarico di consegnarle questa cartella e ha detto che si tratta di qualcosa di piuttosto urgente e di capitale importanza.”
“Dovevo immaginarmelo! Herr Kronenberg, con questa sua pratica ereditaria, continua a tempestarmi di messaggi, lettere, documenti. Non vorrei sembrarle scortese, ma rammenti al mittente, se ne avrà l’occasione, che non sono al suo servizio giorno e notte; anch’io ho diritto ad una vita privata!”. Ernst stesso si sorprese del vigore della propria risposta: era sempre stato disponibile e calmo con ogni cliente, ad ogni ora, ma oggi no, oggi aveva finalmente altro a cui pensare!
“Claudia, è una questione di lavoro: devo firmare alcune bolle e poi arrivo” gridò Ernst voltando la testa in direzione del salotto. Da quella parte non arrivò alcuna risposta.
Claudia, infatti, non appena aveva sentito Ernst aprire la porta al fattorino, presa dalla curiosità, era sgattaiolata nel largo corridoio che attraversava quasi tutto l’appartamento; voleva provare a sentirsi la padrona di casa, girandola in lungo e in largo. Non era forse vero che Ernst le aveva chiesto di visitare la casa, di vedere la sua collezione, di dividere con lui la loro vita futura? Si sentì autorizzata a proseguire: lungo il corridoio si aprivano numerose porte, tutte sovrastate da una targa che recava criptiche sigle letterali. Claudia procedette, tenendo in mano una lunga candela accesa infissa su un basamento in ottone e camminando in punta di piedi per evitare di far scricchiolare il pavimento di legno. Aprì la prima porta sulla destra, infilò timidamente la testa e, non intravedendo alcunché, uscì e proseguì oltre. Aprì la porta della stanza successiva, poi quella dopo ancora e così di seguito: erano tutte buie. Dalle finestre - perché dovevano pur esserci delle finestre - non traspariva nemmeno una sottile lama di luce che lasciasse intuire che cosa Ernst conservava con tanto amore. Claudia si accorse di ansimare e di sentirsi - chissà perché? - inquieta. Una volta in fondo al corridoio le si presentò davanti un’ennesima porta che lei schiuse timorosamente, cercando ancora di evitare ogni rumore; diede un’occhiata all’interno, ma tutto era buio. Allora la spalancò, trattenendo il fiato in attesa di chissà quale spettacolo. La candela emanava una luce tremula e fioca e così, all’interno della stanza, Claudia poteva scorgere solo una struttura di forma non ben definita, cui erano appesi degli strani capi. Claudia intuiva di aver trovato la collezione che con tanto timore Ernst le aveva descritto, ma la luce fioca della sua candela non le permetteva di osservarla in dettaglio, come avrebbe voluto. Tastò con la mano sinistra il muro interno alla stanza in cerca di una manopola della luce, ma sotto le dita sentì solo un interruttore rettangolare, mai incontrato altrove. Mentre attendeva invano che la luce elettrica illuminasse la stanza, si inoltrò nella stanza, per vedere da vicino quegli abiti. Ed ecco, la struttura cui erano appesi cominciò a muoversi: alla luce della candela, guizzante e tremante per lo spostamento d’aria, vide venirle incontro un ininterrotto corteo di… ma che cos’erano quelle cose mostruose? Pelli, una lunga teoria di pelli, grigiastre, svuotate degli esseri che avevano rivestito. Ma la cosa più orrenda era che si trattava, senza ombra di dubbio, di pelli umane che la avvilupparono e le impedivano di respirare, di gridare, di fuggire! Da vicino poteva osservarne ogni dettaglio: erano raggrinzite, un po’ secche, ruvide al tatto, eppure emanavano uno strano odore di umidità, di fiori putridi, che la nauseava. La luce della candela, unita al movimento della struttura metallica creava ombre inquietanti, soprattutto nella parte della testa: le cavità oculari vuote, scavate, buie, che sembravano però muoversi a causa del baluginio della luce malferma avevano un aspetto terrificante. Claudia sapeva di aver promesso di rispettare e amare questa collezione, perché era una parte integrante di Ernst, ma ora, alla prova dei fatti e di fronte alla realtà, mantenere la promessa era per lei un impegno insostenibile. Lasciò cadere la candela, che si spense, e agitando le mani con frenesia si liberò dal quell’abbraccio disgustoso. Via, via! Voleva uscire al più presto dalla gabbia di questo amore, da questo incubo di ricordi mummificati.
Arretrò muta fino alla porta, si voltò di scatto e si trovò di fronte il sorriso timido di Ernst, che la guardava con occhi mesti e colpevoli. L’uomo, in cuor suo, sperava che la scoperta così brusca del suo segreto avesse sì suscitato lo stupore e la perplessità di Claudia, ma non la avesse disgustata, al punto da farla fuggire.
Gli occhi della donna, tuttavia, non lasciavano spazio alla speranza: lei era smarrita, spaventata da ciò che aveva visto, ma anche dalla propria reazione. Si era sempre ritenuta una persona aperta e curiosa, ma quello spettacolo raccapricciante, quella interminabile fila dei fantasmi del passato dell’uomo che pensava di amare era inaccettabile anche per lei! In quel momento non poteva provare pietà per lui. No, ora no, forse - chissà - in futuro... Si sentiva poi tradita da lui che, pur amandola, l’aveva costretta ad affrontare una situazione tanto insostenibile, per chiunque e dunque sì anche per lei! La Claudia anticonformista, libera e coraggiosa aveva ceduto il passo ad una donna spaesata e spaurita; aveva bisogno di riflettere, di ritrovare se stessa, ma lontana dal quel luogo e da quell’uomo, dall’apparenza innocua, ma diabolico. Si coprì la bocca con la mano, gettò a Ernst uno sguardo freddo, severo e sprezzante e fuggì per il corridoio.
Lui la inseguì, balbettando parole di scusa e giustificazioni: “Claudia, amore mio, non andartene! Lascia che mi spieghi, ti prego! Ti amo e voglio dividere con te la mia vita, il mio futuro, ma anche il mio passato…” Le sue parole furono interrotte dal rumore della porta aperta con decisione e dalla corsa di lei, che scendeva le scale a precipizio, senza più voltarsi.
Ernst, a capo chino e con le spalle curve, raggiunse lentamente l’anticamera e chiuse piano la porta d’ingresso, nei consueti gesti di ogni sera.
Andò in salotto, senza accendere le luci. Il fuoco nel camino si era spento e le braci rosseggiavano nella notte. Spossato, l’uomo si sedette in poltrona, guardando al di là dei vetri leggermente appannati dal freddo. La finestra incorniciava la grande ruota del Prater, illuminata, che girava nel parco. Si sentiva in lontananza la musica allegra di un’orchestrina. Dalla strada salivano i canti e le voci dei ragazzi che tornavano, ridanciani e alticci, dalle feste mascherate, dalle sfilate di Carnevale, dai balli.
Quanta gioia intorno a lui, che era invece solo e triste! Che cosa ne sarebbe stato di lui, domani e dopo e dopo ancora? I suoi giorni si sarebbe susseguiti senza senso, senza speranza! Sì, c’era ancora il suo lavoro, cui aveva dedicato tante energia e tanta parte della sua vita, ma qual era il senso ultimo di questo suo impegno? Il titolo di notaio, la fama, l’appartamento lussuoso in cui viveva, il denaro accumulato, la sua collezione, amata e odiata? Ernst Hirschfelder possedeva molte cose, molti beni, ma lui, in sé, che cos’era?
Socchiuse gli occhi e sospirò, riflettendo ancora sulla sua vita. Dopo qualche istante, prese la pipa dal tavolino accanto alla poltrona e accese un fiammifero; osservò la fiammella che si alzava chiara e diritta nel buio della stanza… Si alzò di scatto, tenendo in mano la scatola di fiammiferi e si precipitò nella prima stanza dove conservava la sua collezione. Senza un attimo di incertezza, appiccò fuoco alla prima pelle che dondolava davanti a lui: questa crepitò, mandò qualche scintilla e si spense rapidamente, con un ultima sottile spira di fumo che saliva verso il soffitto. L’uomo, presa una candela, l’accese e con questa incendiò la sua collezione, una pelle dopo l’altra, senza sosta e senza ripensamenti, una stanza dopo l’altra, procedendo a zig zag lungo il corridoio. Le pelli bruciarono rapidamente, lasciando dietro di sé solo un acre odore di fumo, che rimase sospeso nell’appartamento.
Ernst si coprì gli occhi con le mani, sgomento. Non seppe piangere. Camminò a passi lenti fino alla sua camera, si spogliò posando con cura gli abiti sulla poltrona, si lasciò cadere sul letto, stringendosi le tempie con i pugni serrati. Pensò a lungo al suo passato, cancellato per sempre; poi si sdraiò, svuotato e i suoi occhi si chiusero.
“Memoria est thesaurus omnium rerum et custos” (Cic – De orat. 1, 5, 18)
Il Professor Gottlieb annuncia addolorato la morte di
(1865-1913)
Notaio integerrimo, professionista stimato, alunno esemplare e amico di una vita.
La cerimonia funebre avrà luogo domani alle h. 14.30 presso lo Stephansdom.
R.I.P.
[1] Jugendstil: (lett.) stile giovanile. Stile floreale o liberty, corrente artistica dell’inizio del ‘900 che riprendeva nelle sue decorazioni motivi floreali e naturalistici. Jugend era il titolo di una rivista pubblicata a Monaco che presentava uno stile grafico che utilizzava questi elementi.
[2] kind majnß: yiddish (lett.) bambino, figlio mio. Il prof. Gottlieb, di religione ebraica, usa alcune espressioni in yiddish, la lingua degli ebrei ashkenaziti, stanziati nei paesi dell’Europa orientale dopo la diaspora ebraica. La lingua, che utilizza l’alfabeto ebraico, unisce elementi di ebraico con altri di tedesco, slavo e neolatini. La forte presenza, all’inizio del ‘900, di austriaci di religione ebraica e la somiglianza con il tedesco rendevano queste espressioni comprensibili a tutti.
[3] a glesl tej: yiddish (lett.) una tazza di tè.
[4] Naschmarkt: mercato all’aperto che sorge sulla parte terminale e interrata del fiume Wien. Durante la settimana vende cibarie esotiche, mentre la domenica ospita anche il Flohmarkt, il “mercato delle pulci”.
[5] Gymnasium: è la fusione della nostra scuola media con una sorta di liceo classico. Lo si frequenta dai dieci ai diciannove anni ed è l’unica scuola che permette l’accesso all’università.
[6] Gustav Mahler: compositore e direttore di orchestra austriaco (1860-1911); compose nove sinfonie.
[7] Abitur: equivale al nostro Esame di Stato alla fine dei cinque anni di medie superiori. L’Abitur si consegue solamente al Gymnasium e alla Hauptschule.
[8] Oremer Ernst majnß: in yiddish (lett.) mio povero Ernst.
[9] wi a fisch in waßer: in yiddish (lett.) come un pesce nell’acqua, cioè completamente a proprio agio.
[10] “Das Wiedersehen”: l’arrivederci. La sonata si intitola invece “Das Lebewohl”, l’addio.
[11] Egon Schiele: (1890-1918) pittore austriaco, visse una vita costellata di lutti familiari e sofferenza, che diedero alle sue opere grande drammaticità e forza espressiva.
[12] Gott majner: in yiddish (lett.) Dio mio!
[13] Fratelli Thonet: famiglia di mobilieri che inventò la tecnica di curvatura a vapore del legno per la produzione in serie di sedie, divanetti e altri elementi di arredamento.
[14] “Kennst du…glühn”: in ted. “Conosci la terra dove fioriscono i limoni/l’arancia d’oro risplende fra lo scuro fogliame…”. Questa poesia è recitata da Mignon nel libro III, cap.1 del “Noviziato di Wilhelm Meister” di J.W. Goethe, che rimpiange le bellezze dell’Italia, suo paese natale
[15] J.J.F.K.Radetzky: militare austriaco (1766-1858) ebbe il comando delle forze austriache nel Lombardo Veneto; nel 1848 dovette ritirarsi da Milano dopo le Cinque Giornate, ma cominciò a ricoprire il luogo di governatore del Lombardo Veneto in seguito a vittoriose battaglie.
[16] Ring: si tratta di un imponente anello lungo quattro chilometri e largo più di cinquanta metri che delimita la zona centrale di Vienna; su di esso si affacciano centinaia di palazzi ottocenteschi, che contribuiscono con il loro sfarzo a renderlo una delle aree urbane di maggior prestigio di tutta Europa. Prese il posto (metà Ottocento)delle mura medioevali che avevano difeso Vienna dalle invasioni ottomane, dopo che venne meno la necessità di difendere la città da assedi, dato che ormai le guerre si risolvevano per lo più sul campo.
[17] kind majnß: v. nota 2
[18] Klimt…”Il bacio”: Gustav Klimt, artista austriaco vissuto fra il 1862 e il 1918, ebbe un ruolo predominante nel movimento artistico secessionista nato a Vienna in quel periodo. Nella sua produzione, oltre a numerose collaborazioni in edifici dell’epoca, ebbero grande rilievo i ritratti e le scene d’amore, la più famosa delle quali è “Il bacio” (1907).
[19] Johann Strauss: (1825-1899) noto compositore viennese, scrisse centinaia di valzer, polke, quadriglie, marce e anche quindici opere. Il brano più celebre è “Sul bel Danubio blu”. L’opera citata, “Frühlingsstimmen”, “voci di primavera” è spesso proposto al famoso Concerto di Capodanno.
[20] Padiglione della Secession: si tratta di una palazzina fatta costruire a cavallo fra ‘800 e ‘900 dagli artisti del movimento Secessionista, capeggiati da G. Klimt (v. nota 14), per ospitare esposizioni artistiche alternative a quelle più rigide, di ispirazione neorinascimentale, in voga in quel periodo.
[21] Groschen: lo scellino austriaco è diviso in 100 Groschen.