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Storia di una cappelliera

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Era il 1902 quando vidi la luce nella Ville Lumière.

Mio padre era un baule-armadio, un signore molto serio ed elegante, alto e impettito, un po' spigoloso forse, che svolgeva con grande senso di responsabilità e ordine la sua funzione: la pelle ben curata, i lucchetti sempre scattanti e funzionanti, le cerniere, lucide e ben ingrassate, che gli permettevano di aprirsi senza difficoltà e di mostrare all'occhio del padrone tutto il contenuto. Da un lato, le grucce di metallo, allineate e fissate al bastone appendiabiti, così da evitare quel fastidioso tintinnio, certo poco serio e, anzi, assai pacchiano; su di esse facevano bella mostra di sé smoking, frac, giacche sportive, pantaloni di vigogna, camicie di lino e quant'altro piacesse a quell'indefesso viaggiatore, Monsieur Auguste, un bon vivent già trentenne, rampollo di una famiglia di industriali tessili, con la passione dell'archeologia, che mio padre serviva fedelmente da tempo, ben prima della mia nascita. Nell'altra metà del baule, i cassetti in legno di ciliegio scorrevano senza intralci, pronti ad accogliere biancheria intima, cravatte, papillon, guanti, tutto in bell'ordine, in ogni occasione e luogo.

Mia madre era invece una valigia morbida di marocchino. La sua pelle aveva la calda tonalità dell'ambra, su cui occhieggiavano maliziose le borchie in ottone dei paraspigoli perfettamente lucidi. Aveva piedini esili, ma forti, che certo piacquero molto a mio padre, quando la incontrò la prima volta; anche la fodera in lucida seta deve avere avuto un ruolo di rilievo in questo gioco di seduzione. La morbidezza di mia madre, una donna accogliente e capace, con una certa tendenza al disordine, contrastava con la rigidezza di mio padre; e tuttavia, erano una coppia perfetta, fatti davvero l'uno per l'altra.

Partirono in viaggio di nozze con Monsieur Auguste, in una lunga crociera in nave da Le Havre al Mediterraneo, fino alle coste dell'Egitto. Fu il primo di una lunga serie di viaggi, che mio padre e mia madre affrontarono con entusiasmo e curiosità. In fondo erano nati per viaggiare.

Durante la navigazione, il padrone conobbe una giovane inglese, Miss Elizabeth; ella era una graziosa ragazza poco più che ventenne, dai capelli castani e dagli occhi verdi, il corpo snello e flessuoso e un carattere allegro e accomodante, direi quasi morbido. Lavorava come governante e si occupava di due biondi pargoletti, che correvano senza sosta qua e là per la nave. I due monelli ebbero l'ardire di entrare nella camera di Monsieur Auguste, che si stava preparando per la cena; Miss Elizabeth entrò di corsa per riacciuffarli e rimase colpita dall'eleganza e dalla distinzione di quell'elegante uomo francese. E anche lui non rimase indifferente davanti agli occhi verdi e scintillanti della ragazza e ai suoi modi garbati. In breve, un vero coup de foudre: scoppiò l'amore, un amore così appassionato, che all'arrivo in Egitto Monsieur Auguste e miss Elizabeth si sposarono, all'Ambasciata Inglese del Cairo.

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Il novello sposo volle fare una sorpresa alla giovane moglie e ordinò in Francia un nuovo set di valigie per lei. E così nacqui io, prima di una lunga serie di fratelli e sorelle e di altri parenti (di cui non era sempre chiara la provenienza e che cosa li legasse a noi), tutti però con un forte senso di appartenenza ad una grande famiglia, una famiglia unita dall'amore per le scoperte e i viaggi, sempre pronta ad accogliere i nuovi arrivati, anche se di ignoti natali, ad accettare le capacità e le inclinazioni di ognuno di noi, felice di percorrere un tratto della vita insieme, una famiglia così forte da accettare anche le perdite che, negli anni, si susseguirono in modo fortunatamente non sempre tragico.

Fin dall'inizio mio padre e mia madre accolsero con affetto le valigie, invero semplici, di Miss Elizabeth, pardon!, oramai Madame Elizabeth. Essi si impegnarono a trasmettere loro il senso di appartenenza ad una classe, nata sì per servire, ma con dignità e senso di responsabilità. "Che cosa farebbero i nostri padroni senza di noi, dove mai potrebbero andare da soli?" diceva mio padre. "Vi potete immaginare Monsieur Auguste che viaggia con un fagottino legato in cima ad un bastone, come un pellegrino? Noi teniamo in ordine i loro abiti e, in cambio di questo semplice servizio, abbiamo la possibilità di viaggiare verso mete fantastiche e lontane, sulle migliori navi e sui più eleganti treni, facendo incontri sempre nuovi, che ci arricchiscono. Dovremmo allora sentirci umiliati per il fatto di lavorare? Suvvia, Signori, viviamo ormai in un'epoca in cui lavoro e abilità personali possono solamente dare lustro all'individuo!" Mia madre annuiva, accarezzando civettuola le maniglie di lui, che, al suo tocco, s'imporporavano e diventavano più lucide.

Queste parole e il modo esemplare con cui i miei genitori svolgevano il loro ruolo ebbero un effetto davvero insperato sulle valigie di Madame Elizabeth; esse, che avevano svolto con scarso entusiasmo il loro lavoro, s'impegnarono con nuova lena: diedero un nuovo ordine alla loro vita, curarono di più il loro aspetto esteriore e seppero sgomberare i loro angoli più intimi e nascosti da inutili fardelli, tanto da non sfigurare per nulla accanto a mamma e papà, quando finalmente furono scaricate sul marciapiede in Rue de Longchamp davanti a casa. Il concierge di palazzo fu molto sollecito con tutti e, aiutato dai domestici, portò i bagagli nell'appartamento di Monsieur Auguste.

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I miei fratelli e io aspettavamo con impazienza il ritorno dei nostri genitori e di Monsieur Auguste e della sua sposa. Fu per entrambe, nostra madre e Madame Elizabeth, una sorpresa unica vederci in fila nell'atrio, tutti diversi uno dall'altro eppure con un tratto comune, quasi un marchio di fabbrica, che ci dava un senso di appartenenza ad un’unica grande famiglia; eravamo tutti in trepida attesa delle viaggiatrici, che ricambiarono l'accoglienza con gridolini di stupore e ammirazione e con lacrime di contentezza. Monsieur Auguste e mio padre, orgogliosi del successo del regalo e compiaciuti della nostra bellezza, sorridevano con bonomia, celando la loro emozione. Maman e Madame Elizabeth accarezzavano, chi con lo sguardo, chi con mani tremanti, noi, i nuovi arrivati.

La primogenita, come ho già detto, ero io, la cappelliera: tonda, con la pelle ambrata di mia madre e l'interno in seta moiré, rigida e salda come papà, con una chiusura a scatto dotata di un'elegante chiave dorata, e due lunghi manici per poter essere trasportata comodamente. Al tocco di Madame Elizabeth, mi aprii prontamente, mostrando il contenuto: tre nuovi cappelli, le dernier cri de la mode, regali anch'essi del neosposo. Alla loro vista, la giovane sposa batté le mani, come una bambina, e abbracciò Monsieur Auguste, con trasporto.

Proseguì poi la rassegna: mia sorella Beauty case, un bauletto davvero grazioso e molto femminile, colmo anch'essa di regali; il baule portascarpe, diviso in scomparti, dove riporre le calzature, e dotato di un cassettino per spazzole, panni, barattoli di lucido da scarpe, stringhe di ricambio; veniva poi un baule-armadio, così somigliante a nostro padre, ma con un certo carattere femminile e la grande capacità di capire e accontentare le esigenze di una giovane donna. Seguivano ancora valigie e bauletti di vari formati, una borsa portalavoro ("È sempre bene" diceva nostra madre "che una donna, anche di buona famiglia e con una buona posizione sociale, non stia mai con le mani in mano!") e persino un porte-monnaie, un borsellino, l'ultimo nato, il più piccolo della famiglia, che negli anni dimostrò una peculiare tendenza a smarrirsi nei luoghi e nei momenti meno opportuni. Spariva, non si capiva come, giacché non sapeva certo camminare, ma riuscivamo sempre a ritrovarlo perché richiamava la nostra attenzione con la sua voce argentina. Non parlava ancora, ma emetteva un suono tintinnante con la bocca spalancata, un suono che riusciva a superare i rumori della nave in movimento, di una dogana o di una hall d'albergo colma di gente e bagagli.

Terminava la rassegna una valigetta portagioie, chiamata Letizia, che fu sempre foriera di grandi piaceri; Madame Elizabeth prese in mano questa mia sorellina e la aprì: sul velluto bordeaux spiccava una lunga collana di perle, lucide e perfette, che lasciarono la donna senza parole, ma con gli occhi colmi di lacrime di gioia e gratitudine verso l'innamoratissimo marito.

Nei primi mesi di vita coniugale, Monsieur Auguste e Madame Elizabeth rimasero nella loro dimora parigina. La novella sposa voleva conoscere la città, imparare ad occuparsi del ménage familiare, conoscere gli amici e i parenti del marito (invero sconcertati dalla decisione di Auguste, fino ad allora uno scapolo convinto, di sposarsi così spensieratamente, senza approfondire la conoscenza della ragazza, dei suoi natali e trascorsi), imparare quel certo savoir faire, per non sfigurare nel milieu sociale di cui avrebbe fatto parte da allora in poi. Madame Elizabeth doveva inevitabilmente migliorare il suo francese, che risentiva così spiacevolmente del suo accento inglese. D'altro canto, una signora della buona società parigina deve sapersi esprimere al meglio nella lingua di Racine e di Voltaire, la lingua della nobiltà internazionale e dalla diplomazia!

Dopo qualche tempo, Madame Elizabeth volle ricambiare la generosità del marito e ordinò per lui un nécessaire da viaggio per la barba e la toilette, un cofanetto portasigari, che aveva il compito di mantenere il giusto grado di umidità di quelli che, a mio parere, erano sgradevoli salsicciotti maleodoranti, poi un astuccio dove riporre gli orologi e, per ultima, una borsa portadocumenti, per celebrare l'inizio del nuovo lavoro di Monsieur Auguste, che si era deciso ad occuparsi dell'azienda di famiglia. E anche questi nuovi parenti vennero presto a vivere in Rue de Longchamp.

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Anche per noi aveva avuto inizio la nostra vita insieme, finalmente uniti come ogni famiglia degna di questo nome. Trascorremmo i primi mesi in soffitta, coperti da candidi teli che ci proteggevano dalla polvere e dagli attacchi di alcuni assai poco gradevoli roditori con cui eravamo costretti a condividere gli spazi. Per tutti noi, nati per viaggiare e desiderosi di girare il mondo, fu un periodo difficile, che tuttavia ci diede l'opportunità di conoscerci meglio, di creare saldi legami affettivi (dove, se non nelle difficoltà, si esprimono al meglio gli affetti e la solidarietà familiare?) e di imparare, da mamma e papà e da un vecchio baule di legno ormai in disuso, la geografia, la storia e alcune lingue straniere, indispensabili per noi viaggiatori internazionali.

Dopo questo periodo di apprendistato, venne alfine il momento di partire. Ah, i viaggi, la conoscenza di nuovi paesi incantevoli, ricchi di storia e bellezze naturali, così ben cantati da grandi poeti come Omero, primo fra tutti, Stendhal, Byron o Goethe!

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Ricordo ancora i preparativi per il primo viaggio: vennero a prenderci in soffitta e ci portarono al piano nobile, nell'appartamento di Monsieur Auguste. Per i nostri genitori era un ritorno in luoghi noti e familiari, ma per noi ragazzi, che vi avevamo passato soltanto poche ore, era tutto nuovo e così diverso dal laboratorio da cui eravamo usciti e dalla soffitta in cui avevamo soggiornato fino a quel giorno. C'era un grande caos, un viavai di persone, abiti buttati sui letti, la guardarobiera che correva avanti e indietro, accaldata, le gote rosse, le braccia cariche di camicie da stirare. Fummo spolverati, ingrassati, lucidati, ispezionati per controllare che non portassimo clandestini con noi (gli impertinenti roditori cui ho già accennato); si passò poi al controllo delle serrature.

Come Dio volle, poco alla volta, si ristabilì l'ordine: tutto fu riposto nei bagagli di Madame e Monsieur e, dopo un ultimo controllo, partimmo tutti alla volta della Gare de Lyon, dove salimmo sul famoso Orient Express: velluti, tappeti, boiserie, divanetti trapuntati, lampade in opaline, l'eleganza e il comfort di casa su un treno davvero unico e dal fascino irripetibile. Partimmo verso mezzanotte e io passai la notte sveglia ad osservare dal finestrino i paesaggi che si susseguivano e cambiavano di ora in ora; prima la Svizzera, poi l'Italia, Milano, Venezia, e poi lungo i Balcani, per proseguire il suo viaggio fino a Costantinopoli, là dove l'Europa si fonde con l'Oriente. Suoni diversi, una confusione rumorosa e allegra, profumi nuovi e seducenti, architetture davanti alle quali rimanevamo incantati.

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Fu il primo di tanti viaggi, in treno, in nave, in dirigibile, sulle prime automobili.

A mano a mano che la famiglia di Madame Elizabeth e Monsieur Auguste cresceva (ebbero cinque bellissimi e amatissimi figli), cresceva anche la nostra famiglia. Ogni spostamento richiedeva notevoli capacità organizzative: decidere la destinazione, stabilire l'abbigliamento e gli accessori più consoni al clima della zona, stirare gli abiti, stiparli nelle numerose valige e nei capaci bauli, e questo sia per i membri della famiglia sia per la servitù al seguito. Anche una breve vacanza in campagna o in Normandia, dove le occasioni mondane non abbondavano davvero, mobilitava le energie di tutta la famiglia per almeno una settimana. Eppure, ogni partenza era una gioia, per noi come per i nostri padroni, perché avevamo la prospettiva di conoscere nuove città, nuove abitudini, nuovi amici…

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Il desiderio di tutti noi di spostarci, di viaggiare, di conoscere fu frenato, nel corso del tempo, da momenti lieti, come la nascita dei bambini; queste pause permettevano a Madame Elizabeth di riprendersi dalle fatiche del parto e al nuovo arrivato di crescere e irrobustirsi quel tanto che bastava per affrontare i piccoli disagi dei viaggi. Altre volte, tante nel corso del secolo ormai passato, furono le guerre o le rivoluzioni a fermarci, costringendoci a riflettere sulla violenza dell'uomo, sulla sua brama di potere, sull'incapacità di accettare e rispettare gli altri, anche se diversi e forse proprio perché diversi! Perché l'insieme degli uomini spesso dimostra di essere priva di umanità, di quelle doti di cui spesso si vanta per distinguersi da animali e cose?

Ma d'altro canto, che cosa mi sono messa in testa io, una semplice e vecchia cappelliera? Di fare capire agli uomini come vivere in pace e armonia? Tempo perso! Ora che ho raggiunto una veneranda età, lo so, mi sono rassegnata, ma con amarezza…

E poi, la capacità di accogliere, di custodire e proteggere esseri diversi da noi stessi, ma anche di aprirsi agli altri e dare è propria più di chi è come me che non degli uomini.

Amare vuol dire anche dare spazio agli altri. E saper dare significa anche saper concedere la libertà di scelta e di azione a chi amiamo, anche se questo significherà un distacco, forse irreversibile.

E fu per questo che i miei genitori non si opposero alla partenza di mia sorella, Beauty case. Fu la prima a lasciarci. Accadde durante la Prima Guerra mondiale: nessuno avrebbe pensato che una fanciulla così frivola, con la testa piena soltanto di profumi, creme e belletti, si potesse innamorare, e in modo stabile, di una persona seria e concreta. Eppure in viaggio (in quel periodo erano invero rari) conobbe una borsa da medico, piuttosto chiusa e di poche parole, che seppe conquistare il suo cuore, forse grazie alle magiche pozioni che conteneva, come insinuò subito quella malalingua della zia cesta da pic-nic, famosa – per parte sua – per i suoi modi un po' rustici e per il fatto di pensare sempre al cibo. Quest'ultima aveva un unico figlio, il cugino Thermos, nato da un fugace rapporto consumato spensieratamente e in fretta su un prato, all'ombra di un tiglio. Ma sto divagando. Beauty decise di rimanere con il suo aiutante-medico e la loro unione fu benedetta da papà e mamma, che pure soffrirono molto per quell'improvvisa partenza.

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Tutti insieme riuscimmo a trovare un nuovo equilibrio.

Qualche tempo dopo, però, ci giunse la notizia di un grave infortunio capitato a quella che, credo, fosse una nostra lontana parente americana: era l'ottobre del 1929, ricordo che era appena nata Caroline, l'ultima figlia di Madame Elizabeth e Monsieur Auguste. Tutti i giornali riportarono a grandi titoli quel fatto increscioso, la caduta, o meglio, il Crollo della Borsa, che ebbe conseguenza funeste in tutto il mondo. Non so spiegarmi come la caduta di una borsa, fosse anche di grandi dimensioni e di materiale pregiato, potesse scuotere la comunità internazionale, ma fu proprio quello che accadde. Provate a sfogliare un qualunque libro di storia e ne troverete traccia.

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Gli anni – e furono anni difficili - passavano e l'uomo dimostrava sempre di più la sua follia. Monsieur Auguste, che per lavoro era in contatto con tanti paesi e che riceveva notizie dai suoi amici sparsi in tutto il mondo, decise d'imperio di abbandonare Parigi e la Francia e di spostare tutta la famiglia negli Stati Uniti, fino a che le acque non si fossero calmate e la situazione fosse diventata più chiara e, si sperava, tranquilla. Monsieur Auguste affidò l'azienda ad un fidato collaboratore (che si dimostrò un amico davvero prezioso in tutti gli anni del nostro esilio) e diede il via ai preparativi per la partenza, senza arrendersi di fronte alle difficoltà e alle proteste di Madame Elizabeth, che proclamava di non voler abbandonare quella che era diventata la sua patria, il paese dove erano nati i suoi figli, e ormai anche i suoi nipotini, dove avrebbero dovuto avere il diritto di continuare la loro vita, se questo era ciò che volevano. Fu un viaggio mesto, più sereno certo di quello che molti altri dovettero affrontare per salvare la propria vita, lasciando dietro di sé affetti e beni, con incerte prospettive per il futuro. Nessuno di noi sapeva se e quando mai saremmo tornati a casa; ci confortava solamente il fatto di essere ancora uniti, di potere sempre contare sui membri della famiglia. Quando la nave si staccò dalle coste della Francia, sentimmo un brivido che fece accapponare la pelle a tutti noi e alcuni non riuscirono a fermare le lacrime: la meta ultima del nostro viaggio era la nostra patria, la nostra casa, che invece in quel momento si faceva via via più lontana e irraggiungibile.

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Il periodo di esilio in America non fu sereno, anche se fu certo migliore del destino di chi si trovava in Europa, il teatro della guerra e dei tanti orrori che si commisero ai danni dell'umanità. Bombardamenti, rastrellamenti, uomini, donne, bambini e vecchi deportati, famiglie divise e distrutte, gente uccisa per il proprio credo religioso o politico, persone marchiate sulla pelle e nell'anima, senza alcun rispetto per la loro vita e la loro dignità.

Un giorno tutto questo ebbe fine, e i sopravvissuti cercarono di costruire una vita e un mondo nuovo. Alcuni cercarono di dimenticare il passato, altri si impegnarono a tenere vivi quei ricordi, per imparare dagli errori e dagli orrori e per trasmettere anche ai figli e ai nipoti questa coscienza.

Monsieur Auguste riuscì a rivedere l'Europa, la Francia, Parigi, la sua amata casa dove aveva costruito, con Madame Elizabeth, la sua famiglia, certo il suo bene più prezioso. Appena varcata la soglia di casa, si lasciò cadere sulla poltrona all'ingresso e lì perse conoscenza. Fu chiamato un medico, i domestici depositarono con delicatezza sul letto il padrone, nella camera ancora ingombra dei bagagli. Negli ultimi momenti gli furono vicini Madame Elizabeth e mio padre, il baule: una donna e un oggetto, entrambi compagni di vita e di viaggio di quell'uomo che ora, nuovamente a casa, poteva spegnersi, sentendosi finalmente al sicuro, dove si sentiva più amato, in compagnia di chi più amava.

La nuova condizione di vedova, l'età ormai avanzata, la ricostruzione e la situazione economica fecero sì che Madame Elizabeth decidesse di non ripartire, di non affrontare nuovi viaggi e avventura, ora che era sola e che, ritornando nei luoghi che aveva visitato con Monsieur Auguste, avrebbe sofferto ancora più della sua assenza, riandando con la mente ai felici momenti trascorsi con lui, in viaggio. Questo segnò il destino di tutti noi, che fummo relegati – forse per sempre? – in soffitta. E lì passammo tanti anni, oltre due decenni. Ci raggiunse la notizia della morte di Madame Elizabeth e io, sua fedele compagna di viaggio, mi sentii sempre più sola e inutile. Lassù ci giungeva anche l'eco di quello che accadeva per strada, le manifestazioni, i cortei, i movimenti degli studenti, tutti fatti nuovi, poco chiari a noi che vivevamo in quasi totale solitudine, isolati dalla realtà.

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I tempi cambiano, non posso dire se in peggio o in meglio, perché il tempo che passa tende a far dimenticare i dolori, a renderli meno acuti e laceranti, e a farci apparire il passato come un'epoca beata, ma, ahinoi!, irrimediabilmente persa… Un tempo, ad esempio, una donna perbene non si sarebbe mai mostrata per strada senza guanti e senza cappello, men che meno con le caviglie o addirittura le gambe in bella vista, ma appunto le mode passano, i costumi si modificano, le donne si emancipano! Che cosa volete che aggiunga? Io, un'onesta cappelliera, seria e puntuale nel suo lavoro, di buona famiglia, ero ormai inutile, dimenticata in soffitta, ferma da anni, non servivo più a nessuno, ero diventato un oggetto anacronistico, come disse impietosamente Marcel, il primo bisnipote di Madame Elizabeth, la prima volta che mi vide. Era questi un ragazzo di vent'anni, di vivace intelligenza, ma di modi assai spicci, direi quasi sgarbati e bruschi. Per lui, tutto quello che aveva preceduto la sua nascita era inutile ciarpame, relitto di una società superata dalle moderne invenzioni. Marcel studiava medicina, con passione e fervore – devo ammettere – e desiderava un giorno riuscire a scoprire i rimedi per le tante malattie che affliggono il genere umano e che lo rendono fragile e mortale; per lui era inconcepibile che le tecnologie moderne non fossero ancora in grado di mantenere in completa salute ed efficienza il corpo umano, una macchina perfetta sotto molti aspetti, ma inevitabilmente destinata ad una fine ingloriosa. Marcel era dunque un bravo studente, al punto che vinse una borsa di studio per una prestigiosa università degli Stati Uniti; dovendo organizzare il viaggio, salì in soffitta per cercare le valigie necessarie per il suo soggiorno all'estero, dove si sarebbe fermato per un intero anno. Scartò subito papà, il baule armadio, inadatto ad un viaggio in aereo; scelse invece tre valige, capienti sì, ma piuttosto anonime, che nemmeno io ricordavo come e quando si fossero unite a noi. Si fermò poi davanti a me, mi squadrò ben bene, mi sollevò, soffiò via la polvere che mi ricopriva, mi aprì per controllare se ero ancora ben funzionante e decise che avrei viaggiato con lui. Nonostante i suoi modi poco galanti, mi lasciai sedurre dal suo tocco, dal suo alito profumato su di me, e dal fatto che avesse scelto proprio me; ma non sapevo davvero che sorte mi sarebbe toccata! Non mi voglio lamentare, avevo nuovamente la possibilità di viaggiare, di tornare in un paese che avevo visitato tanti anni prima. Io però ero abituata ad accogliere cappelli di velluto, di seta, di pelliccia, cappellini decorati con piume, fiori o pizzi, cappelli che emanavano il profumo sottile, ma inconfondibile della donna che li indossava. Il nostro era un piccolo boudoir femminile, delicato e spensierato.

Marcel decise il mio destino: mi avrebbe usata per trasportare il teschio che gli serviva per i suoi studi di anatomia umana normale. A lui parve un'idea davvero spiritosa riutilizzare in questo modo me, un cimelio del passato, che non poteva avere più nessuna funzione pratica; a me parve invece un'idea di cattivo gusto. Ma c'era poco da prender cappello! Che cosa avrei mai potuto dire io, per dissuaderlo? Non sono schizzinosa e nemmeno paurosa, ma un teschio è pur sempre appartenuto ad un essere umano, che ha vissuto, ha sofferto, ha gioito; anche se oramai è come una scatola vuota (e questo forse me lo faceva sentire più simile a me e quindi più accettabile) è come se conservasse in sé le tracce e i ricordi del passato, come se toccandolo si potessero rivivere le sensazioni della persona che fu. Non riesco proprio a considerarlo un oggetto inanimato; per questo accettai la situazione: avrei potuto conservare, con i miei, i ricordi di quella testa vuota, cui, alla lunga, finii per affezionarmi e cui diedi addirittura un nome, Tess.

Il viaggio in aereo fu breve, ma assai faticoso; io ero abituata a viaggiare nelle cabine di prima classe delle navi da crociera. Erano sì giorni e giorni di navigazione, ma in ambienti e compagnia piacevoli; il viaggio stesso era un'esperienza, un modo di entrare in contatto con nuovi mondi e persone, un'occasione per conoscere meglio se stessi, per pensare a quello che si lasciava e alla meta verso cui si andava...

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La stiva di un aereo è invece una bolgia infernale, dove si viaggia ammassati, senza distinzione di classe e casta, con un freddo e un rumore davvero intollerabili! Poche ore, con l'unico obiettivo di arrivare, in fretta. Lo sbarco, poi! Sballottati e lanciati senza riguardo su nastri trasportatori unti e maleodoranti, destinati a girare come trottole, sotto gli occhi indagatori di tutti, finché il tuo padrone non ti recupera con uno strappo. E la dogana? Dovetti passare controlli di tutti i tipi, fra funzionari sospettosi, brutali che, nel migliore dei casi, mi schernivano per il mio contenuto. Ah, che differenza con il passato!

Giungere nel piccolo appartamento che Marcel avrebbe diviso con altri studenti fu un sollievo, anche se per me significava essere nuovamente messa in un angolo, ferma, senza prospettive di muovermi e viaggiare, per mesi e mesi.

Rimanevo chiusa per settimane; Marcel non trovava il tempo di applicarsi allo studio dell'anatomia, intento com'era a seguire i corsi universitari. Poi con il passare del tempo, conobbe nuovi amici e cominciò così a trascurare gli studi; usciva tutte le sere e rientrava solo a notte inoltrata, tanto stanco da buttarsi sul letto ancora vestito. Spesso tornava in compagnia di ragazze, tante, sempre diverse; dimostrava – è vero - un grande interesse per la loro anatomia, e a me, una vecchia e casta signorina d'antan toccava assistere alle loro lascive effusioni amorose.

Ma – come volle il cielo - anche questo periodo di debauche, di … - come si dice? – di dissolutezza ebbe fine, quando Marcel incontrò Beatrice, una giovane attrice italiana, che seguiva a New York un corso di recitazione. Era magra, alta, portava i capelli neri corti, tagliati alla garçon, aveva una voce roca e un piglio deciso, eppure era dolce e femminile come poche altre donne che ho avuto modo di conoscere nella mia lunga vita. Seppe sedurre Marcel, ma non ne fece un burattino da manovrare a proprio gusto. Lo aiutò anzi a ritrovare i suoi sogni e a lavorare per realizzarli. In breve: seppe riportarlo sulla retta via. Fu amore, un grande amore quello che nacque fra di loro, ma anch'io – e con me il mio imbarazzante ospite, compagno, beh sì … il teschio - ho avuto un ruolo di primo piano. Beatrice, da buona attrice, amava i travestimenti, gli abiti e gli oggetti del passato e io rappresentavo l'incarnazione di un mondo lontano, oramai perduto e ricco di fascino; il teschio, per parte sua, era l'emblema del grande teatro di Shakespeare, dell'Amleto, del famoso monologo, campo di prova di ogni attore e, nella confusione di quell'epoca senza più regole, di ogni attrice. Marcel ed Beatrice trascorrevano il tempo libero insieme, studiando una nuova pièce teatrale lei, immerso negli studi di medicina lui; uscivano la domenica mattina a passeggiare in Central Park e, non poche volte, Beatrice volle portare con sé me e il mio compagno. Sotto gli alberi o sulle panchine recitava per Marcel brani di una commedia e io, volta a volta, nelle mani di lei diventavo un personaggio o una parte della scena: le nostre piccole recite strappavano risate a Marcel o lo commuovevano fino alle lacrime. Fu un periodo dolce e fruttuoso, ma soprattutto felice e tanto più felice perché un clima così sereno e familiare risultava inaspettato, dopo il difficile periodo di adattamento alla Grande Mela; tanta spensieratezza risvegliava in me teneri ricordi del mio passato.

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Arrivò una nuova svolta. Per Marcel giunse la fine del soggiorno di studi: non poteva più rimanere in America e doveva fare rientro a Parigi. Per Beatrice era invece tempo di tornare a Milano, per dare inizio alla sua carriera di attrice. I due ragazzi si dimostrarono razionali e molto adulti (chissà perché essere adulti significare dare più spazio alla ragione che al cuore?), considerando la loro ancora giovane età. Fu Beatrice a dare voce e parole alla loro decisione: "Marcel, tu lo sai: io ti amo! Ma è meglio che la nostra storia d'amore finisca qui, a New York, dove è nata ed è cresciuta. La nostra vita insieme è stata solamente una parentesi nella nostra esistenza." Lui aprì la bocca per intervenire, ma Beatrice alzò la mano per fermare le parole di lui: "No, ti prego, lasciami continuare! A casa abbiamo un'intera vita che ci aspetta, per la quale ci siamo impegnati e abbiamo combattuto, e là abbiamo lasciato anche le nostre famiglie, i nostri affetti, le nostre amicizie." Beatrice, parlando, si sfilava e infilava un piccolo anello, che poi faceva ruotare nervosamente intorno all'anulare, rivelando il suo vero stato d'animo, in quel momento difficile e duro da affrontare e superare. "Abbiamo ambizioni diverse, non potremmo mai conciliare le nostre esigenze. Il nostro amore è un bene troppo prezioso perché possiamo guastarlo, rinunciando ai nostri sogni. Non posso chiederti di abbandonare i tuoi, né tu puoi chiederlo a me." Fissò gli occhi in quelli di Marcel, forse a cercare una conferma, o forse – meglio – un diniego alle sue affermazioni. Marcel tacque e abbassò lo sguardo. Così lei continuò: "E anche mantenere un rapporto a distanza, dopo aver vissuto così intensamente insieme è una prospettiva per me inaccettabile e inimmaginabile. Ti amo, Marcel, te lo ripeto e te lo giuro, ma dobbiamo lasciarci, ora, finché ci amiamo e nulla può guastare i nostri ricordi insieme." Marcel, guardando a terra, sospirò profondamente e a lungo; si portò le mani intrecciate alla bocca, si diede qualche piccolo secco colpo sulle labbra serrate, abbassò le mani e alzò lo sguardo. Si volle dimostrare non meno fiero e risoluto di lei (e ora che sono una signorina ormai âgée, carica certo più d'anni che di esperienza vissuta, mi sento di dire che gli uomini sanno essere davvero sciocchi quando cercano di adeguarsi ai cliché imposti dalla società!) e disse a Beatrice con voce ferma e tono rassicurante: "Hai ragione, amore, è meglio che ci lasciamo amandoci ancora, piuttosto di vedere che il tempo e la lontananza ci rendono estranei." La guardò, sperando di cogliere una piccola crepa nella corazza che Beatrice sembrava avere indossato, ma lei rimase ferma e salda. Allora Marcel sussurrò: "Ancora una cosa: forse mi considererai un sentimentale, ma vorrei che tenessi con te la cappelliera, come ricordo del nostro amore. Mi è sempre sembrato che ti piacesse e vorrei che rimanesse con te, come se fosse una piccola parte di me." In un attimo, il corso della mia vita cambiava di nuovo. Feci appena in tempo a salutare il mio compagno di viaggio, Tess, il teschio, che rimase invece con il suo padrone; fu un saluto mesto, perché, in fondo, mi ero affezionata a lui ed ero certa che ci non saremmo rivisti. Non avrei nemmeno rivisto la casa dov'ero nata, i pochi membri della mia famiglia che erano sopravvissuti agli anni e alle vicissitudini della vita.

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E così partii per l'Italia, un paese che avevo visitato tanti anni prima; mentre attraversavo Milano in taxi, accomodata sul sedile accanto a Beatrice, che mi cingeva con affetto con il braccio sinistro, con atteggiamento protettivo, stentavo a riconoscere la città, così cambiata dopo la guerra.

Conobbi la mia nuova casa, dove conquistai un posto d'onore nella camera da letto: sistemata su un tavolino habillé, all'ombra di un grande attaccapanni su cui erano appesi alla rinfusa cappellini di tutte le fogge, boa di marabù, scialli ricamati, collane e cinture, in un caos allegro e femminile. Alle amiche e agli amici che giravano per casa Beatrice mostrava, con orgoglio e complicità, la sua cappelliera, il dono caro e prezioso del suo amato bene. Raccontava con toni caldi e accattivanti del suo Marcel, del suo amore per lui, della loro storia d'amore ambientata a New York, di quanto io stessa significassi per lei. La sera, spesso, Beatrice mi metteva accanto a lei nel letto, mi accarezzava con lo sguardo e mi parlava, come ad un'amica, mentre ripensava al ragazzo parigino che aveva amato con tutta se stessa o mentre ripassava una parte. Nelle donne che interpretava a teatro faceva vivere le esperienze e i sentimenti che aveva provato per Marcel. Questi sentimenti, così vivi e laceranti, con il tempo acquistarono un sapore diverso, più dolce e i ricordi si fecero meno dolorosi. Rimaneva nel cuore di Beatrice una piccola ferita, di cui era segretamente orgogliosa, il segno della sua capacità di amare, senza rinunciare a se stessa.

Ma Beatrice era una donna troppo viva e curiosa per rimanere sola, a piangere sul passato; nella sua vita entrò un uomo, Giulio, anch'egli attore, che aveva sette o otto anni più di lei. Era un attore già affermato, noto anche al grande pubblico per la sua bravura, ma anche per il suo carattere impetuoso e i suoi scatti d'ira incontrollabili. Poter vivere accanto ad un uomo considerato geniale ad alcuni pare un privilegio, forse perché si pensa di poter assorbire le sue doti o, per chi ha poca stima di sé o addirittura obiettivi di basso profilo, di poter vivere di luce riflessa. Beatrice non apparteneva né a una categoria né all'altra: era forse ancora più ingenua, perché pensava, con il suo amore e il suo carattere fermo, ma solare, di poterlo cambiare. Posso aggiungere ancora una cosa: perché ci si innamora di una persona, se poi la si vuole cambiare, renderla diversa da quella che abbiamo conosciuto e che ci ha fatto smuovere qualcosa nel cuore, nel nostro profondo? "Sarebbe perfetto, se solamente…" si dice. Allora significa che quella persona, quell'uomo non è perfetto così com'é. E dunque, se non è l'uomo per te, perché innamorarsene, vivergli accanto, darsi a lui? Qualcuno mi risponderà: "La perfezione non esiste!" Può essere, ma quando ci si innamora tutto appare perfetto, l'altro sembra proprio quella metà della mela che siamo destinati a cercare forse per tutta la vita!

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Come andarono le cose fra Beatrice e Giulio? Mi toccò assistere a liti, a baci appassionati, a scontri verbali, ma a volte anche fisici, a riconciliazioni, a scene di gelosia, a "Vattene per sempre da questa casa!", a "Torna, te ne prego, non posso stare senza di te!", in una continua altalena di sentimenti. Il tratto peggiore del carattere di Giulio era la sua gelosia, che coinvolgeva anche il passato di Beatrice; e la sua storia d'amore con Marcel era quella che accendeva di più la sua ira, che gli faceva perdere il controllo, che lo portava ad insultarla.

"Tu lo ami ancora, donnaccia (lasciate che usi un eufemismo)! Tu pensi ancora a lui! Devi dimenticarlo e buttare quella stupida cappelliera!" le ingiungeva alzando la voce e, ahimè, le mani. "Toglitelo dalla testa!" replicava lei, fiera e coraggiosa. "Il mio passato ha fatto di me la donna di cui ti sei innamorato! E non ti permettere di dirmi che cosa devo fare!"

Sbollita la rabbia, lui si rannicchiava accanto a lei sul letto, singhiozzando, pregandola di perdonarlo. Fu un periodo d'inferno, per quella povera ragazza, ma non sospettavo che preludesse ad un'azione crudele e meschina di Giulio, che avrebbe cambiato l'esistenza di tutti e tre.

Quel guitto, quell'istrione, quell'uomo da poco si infilò un giorno di nascosto nella casa di Beatrice e puntò diritto verso la camera da letto; io sentii i suoi passi precipitosi che si avvicinavano e, appena si affacciò sulla porta, sentii il suo sguardo gelido, che mi fece accapponare la pelle. Mi afferrò con malagrazia, un ghigno malevolo sul volto, e mi portò via da quello che era il mio nuovo nido, la mia nuova vita; per lui ero soltanto il ricordo dell'amore che aveva unito Beatrice e Marcel e quindi dovevo essere eliminata, allontanata dagli occhi di lei. Lui si illudeva che forse così lei avrebbe dimenticato anche il suo giovane e appassionato amore parigino.

Giulio fu davvero meschino: non mi buttò via, non mi distrusse, no! Decise di vendermi ad un rigattiere, così da ricavare una sia pur piccola somma dal suo infame furto.

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E ora eccomi qua, appoggiata sul parapetto del Ponte di ghisa, esposta al Mercatone dell'antiquariato, in attesa di conoscere il mio futuro. Aspetto. Osservo l'acqua del Naviglio che scorre lenta, le rive verdi di alghe, le case che si specchiano sul canale, la gente che passa. Mi piace pensare che Beatrice abbia abbandonato quell'uomo orribile e che una forza che la ragione non saprebbe spiegare la attiri proprio qui, in questa zona della città, e che ci ritroviamo come due vecchie amiche separate dal destino.

Non so che cosa mi riserva il fato, quale sarà la mia vita nei prossimi anni, con chi vivrò e che cosa farò. Dopo tutti i viaggi, i cambiamenti di rotta, le strade che ho percorso, i paesi e le persone che ho conosciuto, posso solo dire: sono contenta di aver vissuto. E di avere ancora davanti a me una vita, tutta da vivere.

e fine f