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Albero maestro
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Su quella strada, la sua era probabilmente l'unica macchina che passava da ore, se non da giorni. I campi frusciavano al soffio di un tiepido vento primaverile e le stelle diffondevano solo un'aura, un alone lattiginoso sulla campagna. Gli occhi abbaglianti dei fari rompevano l'armonia di quel luogo, scrutavano con sguardo indiscreto un mondo non loro. Se avesse viaggiato con i finestrini aperti, Jacob avrebbe potuto godere di un intenso profumo di viole, di erba selvatica, di resina, incomparabile con quell'insopportabile alberello che penzolava dal suo specchietto retrovisore.
Jacob, però, non si curava del mondo intorno a lui, di quella florida natura, nascosta in una affascinante oscurità, che pure sembrava invitarlo a posare il suo sguardo su di lei, come una donna che, consapevole della propria grazia, mostri con generosa discrezione le proprie beltà. I suoi pensieri erano altrove, ancorati a quel mondo da cui era voluto scappare, ma che, in fondo, non riusciva a rinnegare: più si sforzava di distrarsi, più quella realtà così invisa gli si appiccicava addosso, come una veste eterea sulla pelle madida di sudore.
Passò su un ponte, talmente fragile da oscillare al solo afflato di quella tiepida brezza primaverile; quel segno gli indicava chiaramente che la meta era vicina. La vide confusamente in lontananza, come una macchia scura nelle tenebre della sera. Quella cascina non gli era mai piaciuta, fin da quando i suoi genitori, molti anni prima, avevano deciso di acquistarla e di farne la meta di interminabili afosissime vacanze estive; ma, questa volta, era l'unico posto dove poter trascorrere un po' di tempo con se stesso. La società in cui viveva lo aveva costretto a guardare sempre fuori da sé, a perdere il contatto con la propria identità, a troncare ogni comunicazione con la propria interiorità. Quando si avvicinò ancora, fece capolino nel suo animo confuso il dubbio che quello non fosse il posto giusto dove rifugiarsi, un nido veramente sicuro: troppi ricordi e il fardello di una ingombrante memoria avrebbero rischiato di soffocarlo ancor più. Allo stesso tempo, però, capì che lì nessuno lo avrebbe disturbato con la propria presenza, richiedendogli attenzione, cure, consigli, pretendendo favori, esigendo prestazioni. O almeno così gli pareva.
Imboccò l'angusto vialetto che immetteva nella corte della casa, rallentò e si fermò vicino ad un basso muretto a secco. Fece un profondo respiro, si stropicciò gli occhi per abituarsi alla oscurità, ruotò lentamente il collo e cominciò a guardarsi intorno. Gli era ancora difficile individuare i contorni degli alberi da frutta, delle chiome del bosco poco lontano, delle montagne sopra l'orizzonte, ma gli pareva di vedere, o meglio, di sentire qualcosa. Non poteva dire di aver paura di quel luogo, ormai familiare dopo tanti anni: sapeva benissimo che non c'erano killer appostati dietro le siepi, orchi nascosti nel granaio o folletti dispettosi annidati sotto l'erba alta dei campi. E poi, un docente universitario di filosofia come lui, un profeta della ragione, poteva forse lasciarsi sopraffare da queste puerili soggezioni?
Tuttavia, sentiva freddo, si sentiva osservato; voltava la testa da un lato, e subito sentiva il bisogno di volgerla dall'altro. Nello stesso tempo, voleva capire ciò che percepiva intorno a lui e preferiva ignorarlo, voleva vedere in faccia i suoi fantasmi e cancellarli nell'oblio di una falsa indifferenza. Gli vennero in mente le fantasiose raffigurazioni medioevali dei mostri mitologici, incise in un volume del XII secolo di cui aveva curato una edizione critica. Si ripeté che quelli erano i frutti di secoli di oscurantismo, gli strumenti per mantenere acceso il timore nelle masse, così più facili da tenere a bada come bestie mansuete. Sapeva bene che erano prodotti di fervide immaginazioni, con grandi competenze comunicative, ma – fondamentalmente – prodotti di una acutissima ragione. Incarnavano le paure nascoste degli uomini, ma erano ben controllate dai dotti chierici. Quello che sentiva doveva essere qualcos'altro, qualcosa che venisse solo dal suo animo. Non si trattava di un fantasioso collage di singoli oggetti, di animali realmente esistenti, ma di un prodotto unico ed esclusivo della sua suggestione. Non erano chiari nemmeno a lui i caratteri di quel qualcosa. Ma presto si convinse che fosse davvero lì a spiarlo, a tormentarlo con quel suo invisibile sguardo indagatore.
Jacob decise di darci un taglio. Quelle erano le follie di uno squilibrato: chissà che cosa si sarebbe detto di lui in facoltà, se si fosse venuti a sapere come spendeva il suo tempo libero. È vero, era proprio quello il mondo dal quale voleva allontanarsi; ma, di contro, abbandonarsi a queste assurde percezioni gli sembrava un modo sciocco di guadagnare nuovi spazi per sé, per la propria serenità.
Era confuso, molto confuso. Il dubbio lo attanagliava, gli impediva di scegliere. E questo gli risultava insopportabile: era abituato a veder chiaro nelle cose e si ripromise che anche questa volta sarebbe andato fino in fondo. Ad ogni costo.
Scese dall'auto, chiuse la portiera, aprì il bagagliaio, ne trasse la sua capiente valigia trolley. Chiuse la macchina, l'antifurto si attivò automaticamente. Si disse, sorridendo fra sé, che tale precauzione era del tutto insensata; tolse le chiavi dalla tasca, premette il pulsante una seconda volta, e l'allarme si disattivò fra due lampi di luce giallastra. Si avviò verso l'uscio, tentando di trascinare la valigia lungo il sentiero di ciottoli, che però, dissestato com'era, continuava a farla ribaltare. Si spazientì un poco, sollevò sbuffando la valigia e raggiunse con passi rapidi l'ingresso. Si trattava di una porta a due battenti, in legno di noce, chiusa da una elegante serratura in ottone; era sormontata da un arco vetrato. Gli venne in mente suo zio, il vero artefice di quella cascina. Gli tornarono alla memoria le ore spese a sistemare, rifinire, aggiustare, abbellire ogni dettaglio, sotto la supervisione attenta di sua madre, sempre più innamorata di quel piccolo nido che aveva visto crescere fra le sue mani. La porta fu presto aperta, con due sole mandate. Jacob si aspettava che, dopo tanti anni, i cardini avrebbero cigolato: forse era la suggestione dei suoi pensieri di poco prima, forse il prodotto di anni di film gialli di scarsa qualità. In ogni caso, le valve ruotarono sui cardini nel più profondo silenzio. Egli entrò, accese la luce, che subito illuminò la vasta sala da pranzo; ogni oggetto richiamava qualcosa e, nel complesso, l'impressione fu di un ambiente nettamente più arioso, meno opprimente. Aveva sempre pensato che i luoghi visitati nell'infanzia, se osservati da adulti, risultassero di necessità sorprendentemente ristretti. Così non fu.
Gli pareva strano che il tempo non avesse intaccato quegli ambienti: certo, la polvere ricopriva i mobili, i vetri delle finestre erano ormai chiazzati dall'acqua piovana, gli angoli erano diventati le dimore di piccoli ragni, l'odore dell'aria tradiva decenni di tempo trascorso, ma, nel suo complesso, tutto era rimasto identico a quando la sua famiglia aveva deciso di andarsene da quella casa per trascorrere altrove le proprie vacanze. Si toccò il volto e vi tastò alcune lievi rughe e, passandosi la mano in testa, percepì i primi segni della calvizie: un sorriso bonario si abbozzò sul suo volto, mentre egli meditava sul senso del tempo che passa.
Era soddisfatto della sua scelta: quel luogo gli parve ora, con ancora maggiore evidenza, il più indicato per una breve pausa di riflessione. Ma era anche molto stanco: stanco del viaggio, stanco dei mesi di lavoro ininterrotto, stanco delle mille pressioni cui era sempre sottoposto. E quei pochi pensieri confusi balenati poco prima nella sua testa contribuivano ad abbatterlo. Sbadigliò sonoramente e si affrettò a sistemare ogni cosa prima di andarsi a coricare; lasciò la valigia sul tavolo da pranzo, la aprì e vi pescò il beauty case con il necessario per la toilette. Si avviò verso il bagno e subito percepì un'aria più fresca, quasi profumata; la finestrella era leggermente socchiusa e un alito di vento si intrufolava in quello spiraglio. Girò il pomello del lavandino e con un rumore gorgogliante l'acqua cominciò a cadere sulla ceramica. Aspettò qualche istante, preparò lo spazzolino con il dentifricio, si stiracchiò un po' con un leggero mugolio e cominciò a lavarsi i denti, osservandosi nello specchio.
Ecco di nuovo quella sensazione imbarazzante: nonostante l'unico rumore fosse quello dell'acqua e lo specchio inquadrasse solo il suo busto, Jacob sentiva di non essere solo. Anche questa volta non poteva parlare di paura, ma solo di disagio, accompagnato da un lieve fastidio: più cercava di distogliere la propria mente da quella suggestione, più il suo animo si interrogava su di essa. Cercava di capirne qualcosa di più: ma non la poteva scorgere. Non doveva avere, dunque, né forma, né odore, né colore né qualsivoglia altra qualità; non se la figurava dotata di volontà, di capacità e, dunque, la percepiva come completamente, indubitabilmente innocua. Ma non gli piaceva comunque. Finì rapidamente di lavarsi i denti, sciacquò lo spazzolino, lo depositò sul bordo del lavandino; si asciugò le labbra umide con il dorso della mano e tornò in soggiorno.
Qui la percezione misteriosa scomparve e, per quanto egli cercasse di ritornarvi, stentava a percepirla chiaramente; il massimo che poteva fare era attribuirle delle qualità, scomporre il ricordo di quella suggestione per cercare di descriverselo. Ma, e presto se ne accorse, un conto era percepire distintamente quel qualcosa, un altro era cercarne una spiegazione razionale, forse impossibile. Si preparò per la notte e si avviò verso la camera da letto: superata una doppia rampa di scale arrivò al piano superiore e, passato un grosso arco, entrò nella stanza che era stata dei suoi genitori. Preparò il letto con alcune lenzuola che si era portato da casa e si coricò. Come sempre, prima di dormire si dedicò alla lettura: per questa volta, però, nessun saggio, nessuna rivista specialistica, nessun trattato, ma solo un sano e ponderoso romanzone americano; sorrideva di questa piccola libertà che si era preso e, forse, si considerava anche un po' sciocco a sentirsi così soddisfatto per un gesto così insignificante, che gli portava contenuti così insignificanti. Lesse alcuni capitoli, rapito da una storia apparentemente normale che però, con chissà quale espediente, riuscì a catturare la sua attenzione, facendogli percepire tra le righe che la storia riservava evoluzioni mirabolanti al lettore che da essa si fosse lasciato guidare. Durante la lettura, ogni tanto alzava gli occhi dalle pagine, guardava oltre l'arco di accesso alla camera, nel buio; non sapeva perché lo facesse, ma gli capitò più di una volta.
Decise di spegnere. Inizialmente non poteva vedere nulla, ma poi i suoi occhi si adattarono all'oscurità; dalle finestre filtrava un luce nuova, così diversa da quella proiettata da quei fastidiosi lampioni che avevano recentemente installato sotto casa sua. Era una luce meno intensa, più morbida, nient'affatto fastidiosa: dava un senso di beata pace, di serenità e non sembrava contrastare con il buio dello spazio in cui si intrufolava. Era la natura che, nella sua patria, cercava di spingersi in quell'enclave che qualche uomo, chissà quanti decenni prima, aveva deciso di sottrarle. Era la luce della luna, delle stelle, degli astri che, così lontani, facevano balenare i propri pallidi raggi anche su quegli spazi così insignificanti di fronte alla maestosa vastità del cosmo. Colmo di fascino, Jacob si addormentò.
* * *
La notte trascorse serena, senza incubi, ma anche senza sogni. L'indomani mattina Jacob si svegliò stranamente riposato: le sue membra gli parevano più sciolte, i piccoli dolori di chi, come lui, spende intere giornate seduto erano ormai leniti. Aveva lasciato a casa il suo orologio, compagno instancabile di stancanti giornate di lavoro, e non sapeva che ore fossero: la luce era ancora fioca, e così congetturò che, visto che l’alba doveva essere vicina, potessero essere le cinque. Poi però sorrise di quella sua incancellabile attenzione al tempo che passa, al ticchettio regolare che scandiva la sua ordinatissima vita: quel giorno non aveva impegni, meeting, conferenze e altre simili amenità. Un officio ben più importante lo aspettava.
Si alzò con rinnovata vitalità e spalancò la finestra: un’aria più frizzante di quella serotina lo avvolse, pervasa di piacevole profumo di umidità, tipico delle giornate più uggiose. Distingueva solo i contorni del paesaggio, ancora immerso in una semioscurità: passò alcuni secondi a seguire le linee curve dei monti, osservando le curiose corrispondenze fra di esse e le posizioni delle poche stelle visibili, in un cielo piuttosto lattiginoso e decisamente avvilente. I suoi occhi, quindi, si posarono sulla grande macchia scura che doveva coincidere con la zona del bosco: quante volte era andato a passeggiare con sua madre in quella selva, quante volte con gli amichetti vi aveva organizzato giochi, simulazioni di epici scontri con mostri paurosi! Era stato anche lui un bambino, con le sue ingenuità, le sue fantasticherie puerili e questo gli dava una confortante conferma della sua normalità. Ma non furono solo i ricordi a catturare il suo sguardo sulla chiazza nera del bosco: proprio le fitte tenebre, l’imperscrutabilità, il mistero di quell’ambiente lo toccavano in profondità, novello Odisseo fra ammalianti Sirene. Con sorprendente risolutezza si decise: sarebbe andato nel bosco ad attendere l’alba. In fondo, sarebbero bastati pochi minuti di camminata per arrivarci: se non voleva mancare l’appuntamento, però, si sarebbe dovuto spicciare.
Si infilò una comoda tuta da ginnastica, che di solito usava per il jogging domenicale, un paio di scarpe tanto tecnologiche da assumere parvenze aliene e con il cuore pieno di entusiasmo uscì da casa. Riandò brevemente con la mente, passando davanti al bagno, alle strane impressioni della sera precedente: nulla attirò la sua attenzione, nulla lo turbò. Passò sotto l’arco in vetro, si avviò a passi sicuri lungo il vialetto della corte e scese in strada.
Il tragitto verso il bosco costeggiava alcuni campi di erbacce: o meglio, di quelle che l’uomo ha il brutto vizio di chiamare con tanto disprezzo solo perché sfuggono alla sua volontà di ispettore, controllore, dominatore della natura. Jacob non si curava della vegetazione che lo circondava, ma puntava diritto verso il boschetto, alzando di tanto in tanto lo sguardo al cielo, intimorito dall’eventualità che l’alba lo sorprendesse. Il confine fra campagna e bosco non si può dire fosse nettamente marcato: i due ambienti si fondevano, con mirabile armonia, l’uno nell’altro. Un’atmosfera tutta nuova, però, fece percepire con distinzione a Jacob che lì poteva fermarsi, e godere dello spettacolo.
I tronchi degli alberi si affollavano intorno a lui e un fitto sottobosco mandava un dolce effluvio di fresco. Le chiome, pur floride, non coprivano completamente la vista del cielo, che invece traspariva fra foglie quasi trasparenti nella loro leggerezza. L’aria era palpabile, fitta di una sottile nebbia, che cangiava di consistenza con il costante variare della luce: è mirabile la delicatezza con cui la luce, all’alba, cambia – istante dopo istante. Ancor più mirabile era il suo effetto sotto quella coltre di vegetazione.
Le foglie assumevano nuovo spessore sotto la luce, che ne delineava i contorni; ma diventavano altresì più eteree, leggiadre, trafitte com’erano dalla medesima luce, che ne faceva trasparire le strutture interne, più intime. I confini labili e sfumati dei tronchi assumevano via via maggiore nitidezza, gettavano le prime ombre a terra, guadagnavano profondità. Il terreno, da quell’oceano tenebroso che era, mostrava lentamente le sue asperità, le piccole foglie di una vegetazione in crescita, finanche i suoi pullulanti abitanti. Vi era un che di magico, di misterioso, che un leggero alito di vento rendeva talvolta inquietante: la nebbia, che, attraversata dai deboli raggi del sole, andava gradualmente disperdendosi, si spostava lentamente, in ampi e placidi movimenti ondulatori. A Jacob dava l’idea che essa si avvicinasse a lui, cercasse di sfiorarlo con le sue dita delicate, ma poi si ritraesse, come intimorita di urtare la sua sensibilità. Inoltre, la brezza frusciava fra le foglie dei fusti frondosi, fonte fatata di fiabeschi fremiti; era un canto ripetitivo, e proprio per questo estremamente ammaliante. Era la voce della natura, il sussurro del suo artefice.
Jacob non poté rimanere indifferente di fronte a questo spettacolo. Si sentì fisicamente pieno, sazio, come pervaso da un afflato divino; percepì distintamente la perfezione del microcosmo in cui era immerso, si sentì in sintonia con esso, ingranaggio di una macchina miracolosa. Sentì, sentì una forza nuova dentro di lui, una consapevolezza profonda, più profonda di quelle conquistate in anni di ricerca e speculazione filosofica. C’era un non so che di numinoso in quel bosco, quella mattina; e l’animo sensibile di Jacob non poté fare a meno di recepirlo. Una lacrima rigò il suo viso, testimonianza infallibile di una nuova pienezza spirituale.
Jacob decise di non riflettere, anche perché la condizione in cui si trovava gli impediva di fare alcunché con chiaro discernimento: decise di accettare una manifestazione tanto chiara di quel divino che sembra attraversare tutta quanta la natura. Sentì che è questa forza a conferire al mondo tutta la sua armonia, a rendere tanto delicati i suoi paesaggi, tanto commoventi i moti delle stelle, tanto sorprendente la sua varietà. Questo gli parve più che sufficiente.
In un momento di lucidità, si stupì della stoltezza di tanti che, nella storia, vollero attribuire a questa misteriosa forza, sinolo di ragione e sentimento, un nome, fattezze precise, volontà, passioni e si prodigarono, e tuttora si prodigano, a pregare, ad invocare, ad idolatrare. Non capì questa insania, questa deleteria esigenza, quest’atto di superbia di un uomo che crede di poter avere un rapporto privilegiato con quello che invece è il motore di tutto quanto il mondo. Si ricordò di aver già lungamente elucubrato su questo, ma senza costrutto: si era ancorato ad un indifferente agnosticismo, quando sarebbe bastato così poco per capire…
Jacob raccolse il proprio viso fra le mani, inspirò profondamente e, pervaso di nuove consapevolezze, si allontanò dal bosco numinoso. Poco sopra l’orizzonte un sole mandava la sua delicata luce rosata attraverso la nebbia sempre più rada: una nuova luce poteva ormai splendere anche nel cuore e nella vita di Jacob. E, come nella sua, anche in quella di tutti i suoi simili, in ogni tempo e per sempre.