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Giornata della Memoria

I sommersi e i salvati

Annotazioni sul paradigma biopolitico del moderno in Primo Levi
prof. Guido Panseri


In Se questo è un uomo ci sono un passaggio narrativo e una parola che ci obbligano al pensiero e che, se ben li intendiamo, ci scuotono fin dalle fondamenta.
Questo é il passaggio:

«Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano fra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi: ... è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.»

Levi mostra come nel campo vengano alla luce due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi; mentre altre coppie di contrari (buoni-cattivi; vili-coraggiosi) sono assai meno nette.
Nel Lager la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo. Se uno vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un musulmano di più sopravviva.
Ecco la parola.
Con tale termine, muselmann, i vecchi del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla selezione, i sommersi appunto.

«Soccombere nel Lager è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo ... alla fine, diventi musulmano e vai in gas.

Se i sommersi non hanno storia, se nei loro occhi non si poteva leggere traccia di pensiero, e uno sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate.
Per non diventare musulmano devi riuscire a diventare funzionario del campo, cuoco, infermiere, guardia notturna, spione delle baracche, sovrintendente alle latrine o alle docce.
Ci rendiamo conto che tutto questo è lontano dal quadro che ci si usa fare, degli oppressi che si uniscono, se non nel resistere, almeno nel sopportare. Ma non è stato così, né è così oggi.
Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.
In realtà il termine arabo muslim, che significa colui che si sottomette incondizionatamente alla volontà di Dio, ed è all'origine delle leggende sul presunto fatalismo islamico, assai diffuso in Europa già a partire dal Medioevo, radica la rassegnazione nella convinzione che la volontà di Allah è all'opera in ogni istante in ogni piccolo evento, mentre il musulmano di Auschwitz ha perduto ogni volontà e coscienza, lasciava accadere ciò che accadeva, perché ogni sua forza era mutilata e annientata.

Quel che è certo è che gli ebrei sanno che ad Auschwitz non moriranno come ebrei ma come musulmani.
E il musulmano, quando è ancora in vita, è una figura senza nome, testimone integrale di una situazione estrema cui è tolta la possibilità di distinguere tra l'uomo e il non-uomo.
Da qui anche il senso dell'invettiva profetica di Levi:

«Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici;
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza per ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi
Ripetetele ai vostri figli
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi .»

Al paradigma dello sterminio, che nella storiografia ha orientato in modo pressoché esclusivo l'interpretazione dei lager, occorre affiancare un altro paradigma, che getta nuova luce sullo stesso sterminio, rendendolo in qualche modo ancora più atroce.
Prima ancora di essere il campo della morte, Auschwitz è il luogo di un esperimento ancora impensato, in cui, al di là della vita e della morte, l'uomo si trasforma in non-uomo, l'ebreo in musulmano.
Levi designa talvolta il musulmano con la perifrasi «chi ha visto la Gorgona». Ma che cosa ha visto il musulmano? Che cos'è, nel campo, la Gorgona?
La Gorgona infatti, nella mitologia greca, non ha volto [pròsopon]; il suo viso proibito, impossibile da guardare perché produce la morte, è un non-viso.
Se vedere la Gorgona significa vedere l'impossibilità di vedere, allora la Gorgona (il musulmano) designa l'impossibilità di vedere da parte di chi nel campo ha «toccato il fondo», è diventato non-uomo.
Levi, che comincia a testimoniare solo dopo che la disumanizzazione si è compiuta, è il solo che si propone consapevolmente di testimoniare in luogo dei musulmani, dei sommersi, di coloro che sono stati demoliti. E lo fa con parole insieme profondissime e drammatiche, cominciando col notare che «nella maggior parte dei casi, l'ora della liberazione non è stata lieta né spensierata».
Il superstite conosce la strana disperazione di chi ha sperimentato la necessità della degradazione e sa che umanità e responsabilità sono qualcosa che il deportato ha dovuto abbandonare fuori dai cancelli del campo, lasciare dietro il filo spinato.

Questa è l'atroce notizia che i sopravvissuti portano dal Lager nella terra degli uomini: che si possano perdere dignità e decenza al di là di ogni immaginazione, che vi sia ancora vita nella degradazione più estrema.
«Si esita» scrive Levi «a chiamare morte la loro morte».

Ciò che definisce i musulmani non è tanto che la loro vita non sia più vita, quanto piuttosto che la loro morte non sia morte. Ad Auschwitz si producevano cadaveri senza morte, non-uomini il cui decesso era ricondotto a produzione in serie. Ad Auschwitz il musulmano non può morire, in quanto gli viene negata la possibilità propria dell'umano esserci, l'«essere per la morte».

Insomma, il paradosso di Auschwitz può così essere formulato: il Lager realizza il trionfo incondizionato, la signoria assoluta della morte contro la vita, mediante la degradazione e la negazione stessa della morte!

Nel nazismo e negli Stati totalitari «far vivere» e «far morire» si incrociano, così che la biopolitica coincide con la tanatopolitica. Da qui il razzismo come modo per permettere al biopotere di segnare nel continuum biologico della specie umana delle cesure, reintroducendo così nel sistema del «far vivere» il principio della guerra. Un corpo essenzialmente politico, il popolo, si trasforma così in un corpo essenzialmente biologico, la popolazione, di cui si tratta di controllare e regolare natalità e mortalità, salute e malattia; così il non-ariano transita nell'ebreo, l'ebreo nel deportato, il deportato nell’internato, fino al limite del musulmano. Per lui c'è solo la camera a gas.
Ma allora, in conclusione, quale il senso per noi dell’indicazione del Lager come paradigma biopolitico del moderno, evocata nel brano iniziale di Levi?
L'11 settembre 2001, il grande attacco al cuore dell'America a dieci anni dal crollo dell'URSS, mostra con drammatica evidenza che la fine della Guerra Fredda non ha prodotto quella pace che tanti avevano sognato e che il mondo globale è più violento di quello dominato dalle due superpotenze. Nel mondo globale tutti gli assi spaziali attraverso i quali è stato costruito lo Stato Moderno (interno-esterno; pubblico-privato; particolare-universale; centro-periferia; ordine-disordine;) sono ormai obsoleti.
Il potere non è più verticale, ma tende a presentarsi in flussi trans-statali (sub o sovra statali) che, in reti orizzontali, assecondano le dinamiche economiche.

La globalizzazione, come il campo, è priva di spazialità politica, senza però che questo segni il trionfo di qualche universalismo o la riemersione di differenze, di particolari concreti. Il collasso del sim-bolico dell’universale, non può che produrre il dia-bolico.
Ciò che resta è un individuo particolare, fluido, che non solo non ha più Stato, ma neppure una solida e stabile identità.
Nello spazio informe si dissolve dunque anche il particolare, ed emerge, per così dire, il glocale, dove ogni punto è a diretto contatto con le potenze dei flussi globali di potere, col Tutto, e non genera la superficie della statualità.
La globalizzazione porta con sé una guerra di tipo nuovo, post-moderna, una guerra senza frontiere, in cui non ci sono avanzate o ritirate, e dove si dà mescolanza immediata di guerra e politica.
Come la zona grigia nel grande stabilimento industriale del Lager mostra che l’insieme dei rapporti umani non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori, ché anzi spesso questi erano indistinguibili, così la despazializzazione e la deistituzionalizzazione della politica oggi spiegano alcuni tratti anomali della guerra globale: l’indistinzione tra pace e guerra, tra civili e militari (che cosa è il terrorismo se non il momento conclamato di questa indistinzione?); la guerra viene combattuta non contro nemici identificati, ma contro avversari che non hanno un volto; non più la distinzione classica amicus-hostis, ma quella fra noi e i criminali o gli “Stati canaglia”.
Del resto non a caso le gabbie di Guantanamo contengono prigionieri di guerra trattati come criminali, o in alternativa, criminali trattati come prigionieri di guerra, mentre negli USA si discute se introdurre legittimamente la tortura contro di essi.

Da ogni punto di vista, quindi, la guerra globale non è uno scontro di differenze chiare e distinte, ma di un unico caos in cui si mescolano i volti contrapposti di un unico sistema, di un Uno in lotta con se stesso.
Se la guerra fredda era la situazione in cui la guerra era improbabile e la pace impossibile, la guerra globale è la situazione di guerra continua potenziale e reale, alimentata dall’ideologia della pace, fantasma mobilitante e mai afferrabile.

E allora, che fare? In Primo Levi una via ci è indicata. Io, rileggendolo per questa occasione, vi ho scoperto il timbro della profezia.
Dietro le immagini delle Due Torri che collassano non possiamo certo vedere uno Spirito del mondo che non c’è né dobbiamo limitarci a scorgere deprecandola la cecità della tecnica.

«Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei lager nazisti) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film». [I sommersi e i salvati]

Se vogliamo difendere le nostre anime dal ripresentarsi del Lager in vesti nuove, dobbiamo inoltrarci nel «grigio» del mondo globale con una sobria immagine-azione collettiva, che ci consenta la libertà come azione e l’azione per la libertà. In altri termini:

«Occorre riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e sottrarsi così a quella totale umiliazione e demolizione che conduceva molti nel naufragio spirituale». [Se questo è un uomo]

Concludendo I sommersi e i salvati, Levi scrive che non è «accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi».

«E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto ... occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare degli incantatori, da quelli che dicono belle parole non sostenute da buone ragioni».
«Satana non è necessario: di guerre e violenze non c'è bisogno, in nessun caso».

Levi, sono certo, avrebbe ascoltato anche il grido di Jenin, il campo profughi palestinese teatro di un massacro che un altro grande scrittore, Ben Jelloun, incarna nel canto di una donna, dello stesso nome, disperata e sola, che vaga fra i resti e i ricordi coperti di polvere, cercando qualcosa che sia sopravvissuto al conflitto. Ma anche il cimitero è scomparso, sostituito da una fossa comune, le tombe distrutte, i morti risvegliati e vaganti in spazi dove nessuno ode il pianto di un cammello che non solca più un deserto ormai di cenere e sangue. Eppure il cammello continua a sognare...

Questo dunque concludendo vi dico: occorre che anche noi sogniamo e diamo prova di libertà; occorre che diventiamo pirati, nel senso etimologico del peiràn, ossia che osiamo la libertà nel campo e nel tempo della globalizzazione, perché nessuno più sia musulmano come ad Auschwitz e perché ebrei, musulmani e cristiani non siano più sommersi come a ciascuno di loro è accaduto in tempi diversi ma siano salvati dal riconoscere reciprocamente la loro parzialità necessaria.
La loro compossibilità.
Questo è l’impossibile del mondo?
Ebbene, questo impossibile è il suo unico futuro. Se vogliamo che quello che è accaduto non accada «mai più».

Milano, 27 gennaio 2003
Giornata della Memoria

Guido Panseri    

 


[Se questo è un uomo]


[I sommersi e i salvati]