Don Lorenzo Milani al Liceo Ginnasio “G. Berchet”

 

Curioso il destino.

In giovane età leggi un libro, “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani, discuti con gli amici, conosci un personaggio e ne rimani condizionato per sempre, come se la tua strada, il tuo futuro, fosse indicato lì, in quelle pagine scritte da una persona fino a quel momento sconosciuta.

Decidi così di fare l’insegnante e di dedicare il tuo futuro alla scuola, all’educazione e ti ritrovi a dirigere l’istituto dove l’autore di quel lontano libro ha studiato e si è diplomato: il liceo ginnasio Berchet.

È come se si fosse chiuso un cerchio, completato un percorso che curiosamente e saggiamente ti ha riportato alle radici di quella scelta lontana.

Occasione preziosa, fra l’altro, per assaporare ancora una volta le motivazioni forti che il tempo ha inesorabilmente assopito.

La ricorrenza quest’anno del quarantesimo della morte di don Lorenzo Milani mi invita così a ricordare la lettura di quel testo a cui tanto devo e a cui devo ricondurre, come detto, il mio percorso professionale.

Era estate, sul finire degli anni sessanta e noi giovani, non tutti per la verità, eravamo impegnati semplicemente a cambiare il mondo. Eravamo così convinti e motivati che l’esortazione del Che Guevara. “El nino que no estudia no es un buen revolucionario” ci costringeva a leggere, a studiare e a capire.

Per questo non ci parve strano dedicare qualche serata, seduti nel mezzo di un campetto sportivo di un oratorio milanese, alla lettura e al commento di un libro: “Lettera ad una professoressa” appunto, proposto dal prete.

Era una lettura semplice, chiara e ricca di affermazioni forti che non poteva lasciarci indifferenti; ogni frase era fonte di discussioni a volte vivaci, contrastate con i più politicizzati, al limite del litigio perché ci sentivamo tutti chiamati in causa. Nessuno escluso.

La presenza poi, fra noi, di un sacerdote adulto autorevole e sapiente ci portava a comprendere meglio le affermazioni che don Milani e i suoi ragazzi facevano e a contestualizzarle nella nostra realtà.

In fondo eravamo tutti giovani studenti e si parlava proprio della scuola italiana; quella che frequentavamo tutti i giorni e che non avevamo mai visto in questa nuova prospettiva.

La “Lettera” era una critica minuziosamente condotta della scuola classista che promuoveva i figli dei ricchi, i pierini come li chiamava don Milani e bocciava i figli dei poveri.

Una scuola cioè elitaria, non di tutti, perché faceva “parti eguali fra diseguali”.

Paragonava poi, con un’immagine forte, questa scuola ad un ospedale che curava i sani e respingeva gli ammalati.

In sostanza vedeva nella scuola italiana uno strumento non di crescita per tutti, ma di differenziazione sempre più irrimediabile fra ricchi e poveri, una sorta di formalizzazione dello stato sociale di partenza.

Non erano proprio novità per noi giovani; in quegli anni le sentivamo nelle piazze e nelle assemblee a scuola. Quello che ci colpiva però particolarmente in quel libro era la lettura nuova che don Milani faceva delle classi subalterne, non ideologica e neppure moralistica, ma culturale.

I poveri scriveva, sono emarginati perché non possiedono gli strumenti culturali per impossessarsi del loro destino e per cambiarlo, in particolare non possiedono quello strumento formidabile di emancipazione che è la parola.

Ecco quindi la funzione della scuola: rimuovere le disuguaglianze del sapere e portare tutti i ragazzi ad un livello culturale tali da renderli sovrani e partecipi della loro vita sociale.

Come si poteva restare indifferenti a queste affermazioni?

Il confronto poi, le discussioni con gli amici impegnati accentuavano, accaloravano sempre più l’urgenza di fare qualcosa ed il bisogno che ognuno di noi desse una propria particolare risposta.

È così che io detti la mia: farò l’insegnante convinto anch’io che lo speciale compito della scuola sarebbe stato quello di ridare dignità a tutti attraverso la parità culturale. Un impegno di non poco conto, ma che riempiva il mio orizzonte di aspettative ed entusiasmi nuovi.

L’esempio poi di quell’intelligente e appassionata esperienza di Barbiana mi spingeva a pensare che tutto fosse possibile: bastava crederci.

Non sono sicuro, quarant’anni dopo, di aver sempre operato in questo senso, anzi… il consuntivo potrebbe essere piuttosto amaro e certo lo è ancor di più la constatazione che in tutti questi anni la stessa scuola non è cambiata granché.

Molte delle affermazioni fatte da “Lettera ad una professoressa” sono ancora drammaticamente attuali. L’insegnamento della scuola di Barbiana, pur segnato dal tempo, conserva infatti per intera la carica di profezia e mantiene forte l’inquietudine di allora.

L’esclusione dalla scuola dei nuovi poveri, dei diversi, degli stranieri, degli “altri” si perpetua ancora sotto vecchie e nuove forme.

Ancora oggi la scuola non riesce ad essere davvero di tutti.

 

Gli anniversari sono occasione anche per riportare alla memoria la vita e l’opera del ricordato e anche per approfondirne la conoscenza.

La mia attuale posizione di preside del liceo milanese dove studiò don Lorenzo Milani, mi permette di dare un piccolo contributo per la conoscenza di questa personalità così particolare e complessa.

Sono anche convinto che gli anni del liceo sono importantissimi per la formazione e il consolidamento dei propri convincimenti etici, culturali, ideologici e religiosi.

Sono anni straordinariamente belli ed intensi; sono quelli delle amicizie vere e dei primi amori importanti.

La storia di Milani Comparetti Lorenzo, studente del Berchet dal ‘36 al ’41, è sorprendentemente molto diversa da quella che tutti ci saremmo aspettati.

Il brillante narratore di “Lettera ad una professoressa”, il colto maestro di Barbiana, il religioso devoto alla Chiesa e al Vangelo, nonostante tutto, avrebbe fatto sospettare un passato di studente eccellente dal punto di vista del profitto scolastico e ad una religiosità matura, invece non fu così e le sorprese sono diverse.

I documenti dell’archivio della scuola, alcune interviste conservate e le sue pagelle dimostrano uno studente modesto, con gravi lacune e per nulla interessato alla religione.

A conferma di questo possiamo ricordare che nell’autunno del ’39 dovette riparare un tre in italiano ed un quattro in latino, oppure che all’esame di maturità fu promosso con un modesto sei in tutte le materie, il minimo necessario per diplomarsi.

Che non fosse interessato a questa scuola lo dichiarava anche un suo compagno di classe, Alberto Lorenzelli: “… della scuola se ne fregava e faceva solo il minimo indispensabile” (1). Ancor più esplicito un altro compagno di classe, tale Mario Bucceri: “In classe era uno studente che cercava di arrangiarsi studiando solo quando sapeva di esser interrogato” (2).

Interessante per capire poi la psicologia e la personalità di don Lorenzo quello che dichiara lo stesso Lorenzelli dipingendo il compagno come un tipo estroso ed anticonformista: “… non ammetteva regole. Arrivava con la singola pagina staccata dal libro e, al più, un quaderno e la penna” (3).

La stessa immagine la offriva il futuro famoso scrittore Oreste Del Buono, compagno di banco e amico negli anni successivi:“Lorenzo era un ribelle, uno che non si assoggettava mai alle regole” (4).

Anche sulla questione religiosa importanti sono le testimonianze dei compagni.

Ancora  Alberto Lorenzelli:  “Sicuramente al  liceo non manifestava alcun interesse per la religione” (5).

Il già citato Oreste Del Buono aggiungeva qualche elemento in più: “Finché è rimasto  al liceo non si è mai parlato con lui di questioni religiose. Solo in una lettera da Firenze, scritta dopo il liceo, mi fa cenno del suo primo approccio alla religione. Un giorno, aveva trovato un messale nella cappella che sorgeva sulle terre di sua madre e mi scrisse che quel libro era più interessante di Sei personaggi in cerca di autore (6).

I compagni di classe certamente condizionano ed influenzano i comportamenti di Lorenzo. Come non vedere allora significativa la sua scelta dopo il liceo di fare il pittore se pensiamo che un altro compagno di classe era Enrico Baj?

Certo è riduttivo limitarsi a queste testimonianze, ancor di più alle sue pagelle scolastiche, per capire una personalità così complessa e variegata, ma non mi sfugge che don Lorenzo Milani, il suo essere educatore appassionato, sensibile ai fatti sociali, anticonformista, affondi le radici anche negli anni del liceo Berchet, dove ha potuto maturare una scelta di classe, a ragion veduta, che manterrà coerentemente fino alla fine.

Per dirla con un indovinato titolo di un libro, è rimasto coraggiosamente “Dalla parte degli ultimi”.

 

Milano, gennaio 2007

 

Innocente PESSINA

 

 

(1) La Repubblica - Novembre 1993

(2)    idem

(3)    idem

(4)    idem

(5)    idem

(6)    idem